Vi stanno piacendo i nostri racconti? Oggi per voi c'è una vera chicca di tenacia, romanticismo e passione. La bravissima LAURA GAY, per la rassegna "Romantic Xmas", vi porterà nell'Hertfordshire del 1811, nella tenuta del barone Glastonbury, un uomo distrutto dalla guerra. La giovane Catherine riuscirà a regalargli una speranza?
Scopritelo nel racconto "UNA SPOSA PAZIENTE".
Buona lettura!
Hertfordshire,
dicembre 1811
La carrozza correva veloce sul
selciato producendo di tanto in tanto qualche scrollone. Catherine si sporse
verso il finestrino ammirando le distese innevate della campagna inglese, il
cuore che le tamburellava nel petto.
Ancora non riusciva a crederci.
Era la moglie di Edward Grenville,
barone Glastonbury. L’uomo di cui era sempre stata innamorata.
Si morse piano il labbro e
tornò a guardarlo senza essere vista. Era così bello: alto, muscoloso, i
capelli castani indomabili, le cui ciocche setose gli ricadevano puntualmente
sulla fronte. Il mento era quadrato, il naso lungo e dritto. Solo una cicatrice
sullo zigomo destro gli deturpava il viso – unico segno lasciatogli dalla
guerra in Spagna – ma Catherine era fermamente convinta che quell’imperfezione
gli donasse, rendendolo ancora più affascinante.
Sospirò. Se lui si fosse
sentito attratto da lei anche solo la metà, avrebbe potuto dirsi soddisfatta.
Ma non si illudeva: Edward l’aveva sposata unicamente per ripiego. In realtà,
era sua sorella Victoria a fargli battere forte il cuore. Lei che era stata la
sua prima scelta, ma che aveva deciso di sposare un altro senza attendere il
suo ritorno dalla guerra.
Le mani le tremarono un poco
mentre stringeva con forza il ventaglio. Ancora non sapeva cosa aspettarsi da
quell’unione, eppure aveva quella flebile speranza che non l’abbandonava mai.
Signore,
ti prego… fa che lui impari ad amarmi.
Si schiarì la voce. «Manca
ancora molto, milord?»
Lui reclinò il capo, le dita
che tamburellavano nervosamente sulla coscia. «No, non molto. Dovremmo arrivare
a Hatfield Park tra una ventina di minuti.» Il tono era brusco, quasi spazientito.
Come se la sua domanda lo avesse irritato.
Catherine tornò a mordersi il
labbro.
Quelle erano le uniche parole
che si erano scambiati durante l’intero viaggio, da quando avevano lasciato
Londra, subito dopo aver salutato amici e parenti a cerimonia conclusa. Lord
Glastonbury desiderava raggiungere la sua residenza di campagna nel minor tempo
possibile, in modo da poter trascorrere le festività natalizie nella quiete
dell’Hertfordshire. Ma Catherine sospettava che in realtà il suo sposo
desiderasse solo allontanarsi da tutti e da tutto per nascondersi nella propria
solitudine. Il pensiero che intendesse chiudere anche lei al di fuori della
propria vita le serrava lo stomaco.
«Parlatemi di Hatfield Park»
chiese nella speranza di intavolare una discussione, anche se breve. Il
silenzio la stava uccidendo.
Edward serrò la mascella, i
freddi occhi grigi che si stringevano fino a diventare due fessure di ghiaccio.
«Perché mai dovrei parlarvene? Tra poco la vedrete coi vostri occhi.»
Distolse immediatamente lo
sguardo da lei, come a farle intendere che non desiderava ulteriori
interruzioni. Catherine strinse le dita sul manico del ventaglio che portava
sempre con sé; un regalo della sua defunta madre. Non proferì parola, anzi si
immobilizzò nella speranza di produrre il minimo rumore.
Avrebbe voluto scomparire.
Dileguarsi.
Forse in questo modo lord
Glastonbury si sarebbe sentito sollevato.
Edward era infastidito. Molto
infastidito.
Aveva immaginato diversamente
il giorno delle sue nozze. Al suo fianco avrebbe dovuto esserci Victoria, non
la sorella.
Diamine, Catherine Paget era
ancora una ragazzina di diciassette anni! Una bella differenza d’età, dal
momento che lui ne aveva quasi trenta.
Si appoggiò allo schienale
della carrozza ignorando i continui sobbalzi dovuti alle buche nel terreno.
Chiuse gli occhi, nel tentativo di dimenticare quell’orribile giornata e il
visino spaurito di sua moglie seduta davanti a lui.
Se solo Victoria lo avesse
aspettato, se non fosse convolata a nozze con quell’idiota di Sackville… allora
il suo matrimonio sarebbe stato diverso; sarebbe stato un giorno di festa.
D’altra parte non poteva pretendere che una giovane donna bella e fiera come
Victoria potesse desiderare di mettere su famiglia con un uomo sfigurato. La
guerra gli aveva lasciato profonde cicatrici e quella sul viso era solo la più
evidente.
Non sarebbe stato una buona
compagnia per lei.
Oddio, non lo sarebbe stato
neppure per quella fragile creatura che aveva sposato. Ancora si chiedeva
perché mai la piccola Catherine avesse acconsentito a quell’unione; con ogni
probabilità vi era stata costretta per gettare una pezza sull’onta della
sorella, che aveva rotto il fidanzamento con lui per convolare a nozze con un
altro.
In verità Edward non aveva
osato chiederglielo e nemmeno gli importava.
Tutto ciò che desiderava era
l’oblio.
Dimenticare il matrimonio, la
guerra, i corpi martoriati che aveva visto a Badajoz. Le sue dita smisero di
tamburellare sulla coscia e si strinsero, conficcando le unghie nei palmi.
No, non sarebbe stato una buona
compagnia per una moglie.
Non sarebbe stato una buona
compagnia per nessuno.
Hatfield Park apparve
all’orizzonte in tutta la sua magnificenza. Catherine ne fu inevitabilmente
impressionata. Un viale alberato conduceva fino all’edificio principale: una
costruzione massiccia in pietra, a tre piani, con una torretta nell’ala destra
che dava l’impressione di arrivare fino al cielo, tagliando a metà le nuvole.
Il parco era vastissimo e
circondava l’intera proprietà. Gli alberi, del tutto spogli in quella stagione,
in primavera sarebbero fioriti donando all’ambiente circostante un aspetto
fiabesco. Catherine era certa che lo avrebbe adorato. Così come avrebbe adorato
il laghetto artificiale che si estendeva a est, adesso interamente ghiacciato,
ma di cui poteva immaginare le acque limpide in cui tuffarsi durante le afose
giornate estive.
«È tutto meraviglioso qui»
esclamò incredula, sporgendosi dal finestrino come una ragazzina, eccitata alla
vista di qualcosa di così grandioso.
Suo marito fece una specie di
grugnito.
Lui non sembrava affatto
eccitato. Tutt’altro.
Catherine si chiese se
sorridesse ogni tanto.
La carrozza si arrestò con un
cigolio davanti all’ingresso principale e un valletto in livrea si affrettò ad
aprire lo sportello per aiutarla a scendere. Edward fece da solo. Nonostante la
lieve zoppia che gli aveva lasciato la guerra, non amava farsi aiutare.
Catherine lo aveva compreso a sue spese quando si era offerta di dargli una
mano a salire, porgendogli il braccio, e in risposta aveva ricevuto un’occhiata
bellicosa.
Si strinse nel pesante mantello
di lana e si guardò attorno con curiosità, ignorando il malumore del suo sposo.
L’intera servitù si era schierata davanti alla pesante porta in legno
massiccio, con l’evidente intenzione di dare il benvenuto alla nuova baronessa.
Catherine si era aspettata che Edward la presentasse a tutti, ma dovette fare
da sola. Suo marito entrò all’interno senza voltarsi nemmeno a guardarla, quasi
si fosse scordato della sua presenza.
Lei deglutì, ma fece buon viso
a cattivo gioco. Si dipinse un sorriso tirato sulle labbra screpolate dal
freddo e si avviò dietro di lui, i tacchi degli stivaletti che ticchettavano
sul pavimento riempendo il silenzio. Attese invano che lui le desse qualche
istruzione su cosa si aspettasse da lei e quali sarebbero stati i suoi compiti
come signora di Hatfield Park. Lord Glastonbury si limitò a salire le scale che
portavano ai piani superiori per dileguarsi dietro a una porta, presumibilmente
quella della sua stanza.
Catherine restò di stucco per
la sua maleducazione.
Per fortuna la governante, una
donna bassa e cicciottella, dall’aria gentile, venne in suo aiuto. «Venite,
milady. Per di qua. La vostra stanza è attigua a quella del barone.»
Catherine la ringraziò
cordialmente e la seguì, il cuore che sprofondava sempre di più nel petto.
Sarebbe riuscita ad abituarsi
alla sua nuova vita?
Lì non conosceva nessuno, a
parte Edward. E anche lui era quasi uno sconosciuto, tanto era cambiato dal suo
ritorno in patria.
Catherine si sentì
completamente sradicata dai suoi affetti e da tutto ciò che le era familiare.
Per lei non si prospettava
certo un bel Natale.
Edward ebbe l’impressione che
la testa gli stesse per saltare in aria, come il corpo del suo amico Drew sotto
i colpi dei cannoni francesi. Edward era stato ferito di striscio alla gamba,
cavandosela con una lieve zoppia e il rimpatrio, ma il suo amico non era stato
così fortunato. Il suo corpo, o quello che ne rimaneva, era stato sepolto in
Spagna: brandelli di carne insanguinata.
Si lasciò cadere sul pavimento
duro e freddo della camera da letto.
La sua sposa si aspettava che
la raggiungesse per la notte?
Be’, avrebbe atteso invano.
Lui non era dell’umore adatto a
consumare il matrimonio. Forse non lo sarebbe stato mai.
Perché si era sposato, dunque?
Una vocina insistente nella sua
testa gli strappò una risata amara. Be’, aveva i suoi obblighi verso il casato
e tutte quelle sciocchezze che tanto importavano all’aristocrazia inglese.
Prima o poi avrebbe dovuto mettere al mondo un erede. Tanto valeva farlo con
quella ragazza timida e minuta che gli era stata offerta su un piatto
d’argento. La sorella di Victoria.
Ma lui non sarebbe mai più
stato lo stesso.
Si rialzò solo per andare a
recuperare la bottiglia di whisky che si era fatto portare in camera, e che
giaceva solitaria sul tavolino rotondo, di fianco all’enorme letto a
baldacchino. L’afferrò con dita tremanti e si scolò buona parte del contenuto.
L’alcol era diventato la sua
unica compagna: più seducente di una donna, silenzioso come la notte e caldo e
avvolgente come il corpo di una sgualdrina.
Tossì, sputacchiò e tornò a
bere di nuovo. Tutto, pur di stordirsi. Di dimenticare ogni cosa.
L’alba lo sorprese
all’improvviso. Non si era accorto di essersi addormentato, lungo e disteso sul
pavimento, coi vestiti ancora addosso, finché non sbatté le palpebre mentre la
luce del giorno gli feriva gli occhi. Ormai non era che l’ombra di se stesso.
Aveva perso tutto: il suo amico Drew, Victoria, i sogni di una vita felice… non
gli restava che la sua fedele bottiglia, rimasta vuota al suo fianco, sulla
nuda pietra.
Sogghignò, cercando di mettersi
a sedere. Le gambe gli tremavano, come del resto le mani, ma non voleva
chiamare il proprio valletto. Non voleva nessuno.
Si accorse di aver perso la
cognizione del tempo. Che ora era? La colazione era già stata servita? E sua
moglie si era già alzata?
Sua moglie.
Provava un lieve fastidio a
definirla così, ma immaginava che dovesse farsene una ragione.
Con passo malfermo uscì dalla
stanza, percorrendo l’intero corridoio fino alle scale. Poi scese dabbasso, con
l’intenzione di raggiungere il salottino della colazione, ma si arrestò
all’improvviso a metà del cammino. Lady Glastonbury era in piedi su una sedia e
stava attaccando un rametto di vischio alla porta. Edward si accorse che aveva
addobbato in quel modo buona parte della casa.
«Cosa diavolo state facendo?»
L’irritazione lo colse di sorpresa aumentando il suo mal di testa, che non lo
aveva abbandonato nemmeno per un secondo.
Lei si voltò di scatto e per
poco non ruzzolò giù dalla sedia. Dovette afferrarla con un balzo, stringendo
tra le mani la sua vita sottile. La vide tremare un poco e sgranare gli occhi
quasi temesse la sua ira.
«Sta-stavo solo mettendo
qualche addobbo natalizio» si giustificò. Scese dalla sedia e sollevò il mento
per guardarlo dritto negli occhi. «Questa casa è così triste. Sembra che il
Natale non debba raggiungerla.»
«E non la raggiungerà. Togliete
subito quella roba dalle porte. Noi non festeggeremo il Natale.»
«Ah, no?» La timida Catherine
sollevò un sopracciglio. Di colpo assunse un’aria combattiva. «E perché mai?»
«Perché è mio desiderio non
farlo.»
Lei si scostò una ciocca di
capelli dal viso, sistemandola dietro all’orecchio. Aveva lunghi
capelli neri,
intrecciati sulla nuca in un’elaborata acconciatura. Gli occhi invece erano
verdi, grandi ed espressivi. Denotavano un’indole caparbia, ma anche
un’intelligenza acuta.
«E i miei desideri invece non contano, milord? Voi potete anche
seppellirvi vivo, se è quello che volete. Ma io non ho intenzione di farlo. Ho
già dato disposizioni alla cuoca per il menù natalizio. In questa casa si
festeggerà come ogni anno.»
Edward era allibito.
Quella piccola insolente osava
sfidarlo?
Strinse le mani a pugno e si
irrigidì. «Be’, dovrete fare tutto senza il mio aiuto, milady. Io non
parteciperò ai festeggiamenti, né al pranzo di Natale. Resterò chiuso nella mia
stanza.» Si volse verso un valletto che stava sistemando altri addobbi sopra il
camino. «Ehi, tu» lo apostrofò, la fronte corrugata in un cipiglio che avrebbe
scoraggiato chiunque dal contraddirlo. «Portami dell’altro whisky. Subito.»
Il valletto schizzò via come
una scheggia, abbandonando il vischio sul pavimento. Edward ignorò l’occhiata
di rimproverò che gli lanciò Catherine e risalì la scala, diretto verso la sua
stanza.
Se la sua dolce sposa si
aspettava che si unisse a lei nei festeggiamenti, si sbagliava di grosso.
Avrebbe imparato a conoscerlo,
col tempo. E a temerlo.
Catherine scattò a sedere sul
letto. Era intontita e non riusciva a capire cosa l’avesse svegliata così
all’improvviso. Sentì lo sbattere di una porta e dei passi strascicati su per
le scale e nel corridoio.
Edward.
Non l’aveva raggiunta neanche
quella notte. Come la precedente, si era chiuso in camera a bere. Dopo di che
era uscito, incurante del freddo e della neve che scendeva coprendo ogni cosa
col suo manto bianco.
Rabbrividì, buttando le gambe
giù dal letto.
Forse aveva bisogno del suo
aiuto. Doveva essere congelato con quel tempaccio!
Afferrò una vestaglia e se la
infilò con gesti affrettati. Poi spalancò la porta comunicante. Nella poca luce
scorse Edward accasciato per terra: la camicia stazzonata e mezza sbottonata.
Aveva cercato di toglierla, ma le gambe dovevano avergli ceduto prima che
riuscisse nell’intento.
«State bene, milord?»
«Tornate a letto.»
Catherine esitò. Disobbedendo
rischiava di farlo arrabbiare, ma era evidente che da solo non sarebbe riuscito
a svestirsi e probabilmente neanche a mettersi a letto.
«Ma siete completamente
fradicio. Perché siete uscito con questo tempo? Vi prenderete un malanno!»
La risata sarcastica che gli
uscì dalla gola la infastidì. Edward la fissò coi suoi occhi di ghiaccio. «Siete
preoccupata per me, milady? Magari bastasse una nevicata a mettermi fuori
combattimento. Non avete idea di quanto avrei voluto perdere la vita in
battaglia, insieme ai miei compagni, invece di trovarmi qui, con una sposa che
non ho scelto e non desideravo.»
Catherine capì che l’aveva
detto di proposito, per ferirla. Nonostante ciò, le sue parole le lacerarono il
cuore. «Mi spiace di non essere la donna che volevate e che abbiate vissuto dei
momenti terribili in guerra, ma questo non è un motivo valido per desiderare la
morte.»
«Ah, no?» Edward inarcò un
sopracciglio e cercò di rialzarsi, ma ricadde all’indietro lasciandosi sfuggire
un’imprecazione soffocata. «E voi cosa ne sapete di quello che ho passato?
Eravate lì mentre i miei uomini cadevano a terra sotto il fuoco nemico? Avete
visto i loro corpi martoriati?»
Le lanciò un’occhiata ricolma
d’odio e Catherine tremò sotto il suo sguardo. Ma non se ne andò. Al contrario,
si chinò su di lui per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Avete bisogno di aiuto,
anche se siete troppo testardo per chiederlo.»
Lui imprecò di nuovo, ma le
permise di dargli una mano. Si appoggiò saldamente a lei e si lasciò guidare
fino al letto. Catherine si accorse che era gelato. Le sue mani erano diventate
addirittura viola per il freddo patito durante la sua passeggiata notturna.
«Dove pensavate di andare a
quest’ora della notte, sotto una tempesta di neve?» chiese senza riuscire a
nascondere la propria irritazione.
Edward sorrise sarcastico. «Alla
locanda. Dove, se no? Avevo finito il whisky.»
«Continuando a bere in questo
modo vi farete solo del male.»
«Tanto a chi importa? A voi,
forse? Dite la verità, non sareste felice di rimanere vedova prima del tempo?»
« Non dite sciocchezze!»
Catherine si sentì avvampare per la collera. Se solo lui avesse saputo… lei lo
amava fin dal primo giorno che lo aveva visto. L’aveva amato in silenzio quando
era promesso a sua sorella e anche quando aveva fatto ritorno dalla Spagna,
claudicante e con una cicatrice a sfigurargli il volto. Avrebbe dato qualsiasi
cosa per un suo sorriso o una parola gentile. Ma non disse nulla di tutto ciò.
Si limitò a fissarlo, gli occhi che sprigionavano scintille.
Edward si lasciò cadere sul
letto, pallido e stremato. Sembrava aver perduto la volontà di combattere. «Non
sono sciocchezze, milady. Che ci fate con uno come me? Un uomo distrutto dal
dolore e dal rancore? Cosa vi hanno detto per obbligarvi a diventare la mia
sposa?»
Lei arrossì. La voce le uscì
flebile e tremula nel momento in cui si accinse a rispondere: «Nessuno mi ha obbligata,
milord».
In quel momento si accorse che
lui era scosso da violenti tremiti. Stava battendo i denti per il freddo.
Oh, mio Dio!
Stava rischiando il
congelamento.
Ignorando il pudore e la
vergogna, Catherine si tolse la vestaglia e la camicia da notte e si infilò nel
letto insieme a lui. Poi lo aiutò a liberarsi a sua volta dei vestiti bagnati.
«Co-cosa state facendo, per
l’amor di Dio?»
«Avete bisogno che qualcuno vi
scaldi, milord. Non vi lascerò morire.»
«Siete pazza!»
«No, sono vostra moglie. Anche
se fate di tutto per dimenticarlo.»
Edward stentava a crederlo. Il
corpo nudo di Catherine premeva contro il suo ed era talmente piacevole
percepirne il calore che quasi si lasciò sfuggire un sospiro di beatitudine.
Tutto questo non aveva nulla a
che fare con l’attrazione fisica.
Nossignore. Era puro e semplice
desiderio di sopravvivenza. Diamine, stava per morire assiderato!
Cercò di convincersi di non
provare altro che gratitudine per quella ragazza, ma una voce nella sua testa
gli suggeriva di essere cauto. Anche se era sua moglie, Catherine era ancora
vergine.
Ingenua.
Illibata.

Il corpo di Catherine era
minuto, ma per niente spigoloso come aveva immaginato in un primo momento. Al
contrario, era morbido e setoso, e si adattava perfettamente al proprio. Il suo
profumo poi… gli stava dando alla testa. No, non era corretto definirlo profumo. Non si trattava di un’essenza.
Era l’odore del sapone che si mischiava a quello più acre della sua pelle in
una combinazione irresistibile.
Sì, Catherine sapeva di sapone
e di donna. Poteva esistere qualcosa di più eccitante?
Edward chiuse gli occhi
lasciandosi cullare dalla piacevole sensazione di averla accanto e piano piano
lasciò che la stanchezza avesse la meglio su di lui. L’ultimo suo pensiero
coerente fu nei confronti della sua sposa: forse non era così male, doveva
ammetterlo.
Si svegliò alle prime luci
dell’alba, quando i primi timidi raggi di sole filtrarono attraverso le tende.
Catherine fece per muoversi, ma qualcosa la tratteneva. Le braccia solide e
muscolose di un uomo. All’improvviso ricordò gli eventi della notte trascorsa:
Edward che rincasava mezzo congelato e lei che si infilava nuda nel suo letto,
per scaldarlo. Le sue guance avvamparono all’istante. Dovette ricordare a se
stessa che quell’uomo era suo marito e che non doveva provare vergogna.
All’improvviso lui si mosse nel
sonno e le sue mani si posarono a coppa sui suoi seni. Un brivido caldo le
scese lungo la schiena, ma rimase ferma. Immobile. Il respiro che si faceva più
affrettato.
Cosa doveva fare? Svegliarlo?
Era certa che se avesse saputo
che era lei a trovarsi distesa al suo fianco non si sarebbe preso simili
libertà. Con ogni probabilità l’avrebbe scacciata in malo modo, ricordandole
che lei non era Victoria e che non aveva su di lui alcuna attrattiva.
Eppure, il suo tocco era così
piacevole. Catherine lasciò che Edward le sfiorasse i capezzoli coi pollici e
trattenne il respiro. Le punte rosee si inturgidirono all’istante e un insolito
calore liquido si diffuse nel suo intimo, tra le cosce, in quel punto del suo
corpo che non nominava mai per pudore.
Arrossì di nuovo, incerta sul
da farsi.
Edward doveva essersi ripreso
perché la sua pelle adesso era bollente, il respiro regolare e il membro
premeva rigido contro le proprie natiche.
Oh, mio Dio!
Un’esclamazione di stupore le
sfuggì dalle labbra dischiuse prima che riuscisse a rimangiarsela. Edward si
riscosse, sbatté le palpebre e i suoi occhi grigi si posarono su di lei
stupiti.
«Che diamine…» esclamò brusco,
ritraendosi da lei. «Cosa ci fate nel mio letto?»
Catherine avrebbe voluto
sprofondare per l’imbarazzo. Si tirò su di scatto. «Ecco, io… voi eravate… ieri
notte…» Le parole le uscirono confuse e non riuscì a terminare la frase, troppo
impegnata a cercare di coprirsi col lenzuolo.
Lui sembrò ricordare
all’improvviso. Aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma la richiuse di
scatto.
Catherine era sicura di essere
talmente rossa in faccia da risultare irriconoscibile. Distolse lo sguardo e si
mise a fissare un punto imprecisato sopra il letto. Era affranta. «Mi spiace.
Volevo solo aiutarvi… il mio non era un tentativo di sedurvi, milord. Ve lo
giuro!»
Edward le voltò il viso obbligandola a guardarlo. I suoi occhi ora erano due pozze scure, impenetrabili
come la notte. «Perché l’avete fatto? Tenete così tanto a me? Eppure, dovreste
odiarmi. Disprezzarmi…»
«Questo mai!» Catherine capì di
non riuscire più a nascondere i propri sentimenti. «Io vi amo, milord. Dal
primo momento che vi ho visto. So che non potrò mai sostituire il ricordo di
mia sorella nel vostro cuore, ma… darei la vita per un vostro sorriso.»
I suoi occhi ora erano pieni di
lacrime. Cercò di scacciarle con un gesto rabbioso della mano e tirò su col
naso.
Patetica. Stava diventando
patetica.
Ma invece di ridere di lei
Edward la studiò serio, un abbozzo di sorriso a incurvargli le labbra. Cielo,
era così bello il suo sorriso!
«Mi amate sul serio da tutto
questo tempo? Siete una fanciulla estremamente paziente. Mi domando cosa ci
troviate in un uomo come me, tormentato dal dolore e dalla rabbia.»
«Non esiste né dolore né rabbia
che non si possa dissolvere col tempo.»
Il suo sorriso si allargò,
facendole battere forte il cuore. «Siete anche giudiziosa, non solo paziente. E
che mi dite del mio volto sfigurato? Non vi fa ribrezzo? Victoria mi disse che
non avrebbe potuto sposarmi, anche se non avesse accettato la proposta di
Sackville. Non sarebbe riuscita a guardarmi in faccia: la mia cicatrice la
terrorizzava.»
Catherine provò vergogna per la
superficialità di sua sorella. Allungò una mano a sfiorargli lo zigomo,
passando il polpastrello lungo la cicatrice. «Come posso provare ribrezzo per
voi, milord? Non chiedo altro che rendervi felice per il resto dei miei giorni.»
Lo sguardo di Edward si fece
più tenero. «Anche se vi ho ignorata per anni e vi ho ferita e…»
Catherine annuì con
convinzione. «Certo che sì.»
Il dito di lui vagò dal suo
mento fino alla curva delle labbra, tracciò una linea invisibile senza
distogliere lo sguardo da lei, come assorto. «Siete bella, Catherine. Non me ne
ero mai accorto prima; non vi ho mai prestato sufficiente attenzione, in
verità.»
Lei si sentì avvampare di
nuovo, ma non mosse un solo muscolo. Non voleva rovinare quel momento. Il cuore
le stava galoppando veloce contro lo sterno; temeva quasi che lui riuscisse a
sentirlo. Poi Edward le afferrò la nuca, attirandola verso di sé, e le coprì la
bocca con la sua.
Fuoco.
Catherine ebbe l’impressione di
andare a fuoco.
Dischiuse le labbra sotto
quella lieve pressione e lui ne approfittò per invaderle la bocca con la
lingua, divorandola. Catherine non era mai stata baciata prima e non immaginava
che potesse essere così. Si aggrappò alle sue spalle perché la testa aveva
cominciato a girarle e temeva di perdere i sensi. Quando lui si staccò da lei
si ritrovò senza fiato, ansante.
«Dio mio, Catherine… sei così
dolce. Come ho fatto a non notarlo prima? Dovevo essere cieco.»
Il suo cuore perse un battito. «Milord…»
«Chiamami Edward.»
«Edward…»
Le labbra di suo marito
cercarono di nuovo le sue. Stavolta fu più dolce, si prese tutto il tempo per
accarezzarle le labbra con la lingua, indugiando agli angoli della bocca.
Catherine era certa che sarebbe impazzita per il piacere provato. Poi il bacio
si interruppe. Edward la guardò fisso negli occhi, serio.
«Ti chiedo scusa se in questi
giorni sono stato intrattabile. Non volevo rassegnarmi al mio destino e non mi
sono reso conto che stavo punendo te, un’innocente. Ma ti prometto solennemente
che cercherò di cambiare. Proverò a far funzionare questo matrimonio e smetterò
di bere. Hai la mia parola.»
Catherine sorrise. Non avrebbe
potuto sentirsi più felice. «E festeggerai il Natale insieme a me?»
«Il Natale?» Lui esitò, la
fronte leggermente corrugata. Poi lasciò andare un sospiro. «Non credo di
essere dell’umore adatto ai festeggiamenti, mia cara. Forse più avanti. Quando
non avrò più davanti agli occhi gli orrori della guerra e mi sarò gettato tutto
alle spalle. Ma non ho nulla in contrario che tu addobbi la casa e organizzi un
pranzo natalizio, se è ciò che desideri.»

Solo in quel momento si ricordò
di essere ancora nuda nel suo letto. Arrossì e tornò a coprirsi col lenzuolo. «E
ora, se non vi dispiace, vorrei vestirmi. Ho ancora così tante cose di cui
occuparmi!»
Edward le lanciò uno sguardo
malizioso. «E sia… per il momento ve lo concedo. Ma ho intenzione di venirvi a
trovare questa notte, milady. C’è ancora qualcosa che abbiamo lasciato in
sospeso e che desidero chiarire con voi.»
Il suo povero cuore perse un
battito. Non c’era bisogno di chiedere cosa avessero lasciato in sospeso; Catherine già lo sapeva. Il barone Glastonbury intendeva
diventare suo marito a tutti gli effetti e lei non chiedeva altro.
Forse quel Natale non sarebbe
stato così terribile, dopotutto.
L'autrice:
Laura
Gay
nasce a Genova dove tuttora vive, insieme al marito e a un cagnolino. Ama i
libri, il cinema, la musica e gli animali. Scrive da quando era bambina perché
solo attraverso la scrittura riesce a esprimere se stessa e a volare con la
fantasia. Ha pubblicato vari romanzi e racconti, tra cui Ventunesimo piano,
apparso sul numero 5 della rivista Romance Magazine e Il risveglio
del Crociato, che è stato inserito nell’antologia 365 storie d’amore,
entrambi editi da Delos Books.
Con
Delos Digital ha pubblicato Incantevole angelo (collana Passioni
Romantiche), Sette giorni e sette notti, Senza Legami, Toccami, L’amante francese, Adorabile bastardo, Una notte indimenticabile e Sexy Girl (collana
Senza Sfumature).
Inoltre
con Il risveglio dei sensi e Resta con me si è
qualificata tra i finalisti nelle rispettive rassegne Rosso fuoco e Senza
fiato, sul blog La mia biblioteca romantica.
Ha pubblicato, inoltre, un romanzo stotico/erotico dal titolo La dama misteriosa, il contemporaneo Scandalosi Legami, e il 25 gennaio 2015 sarà online Tutto di te.
Laura
collabora anche con i blog La mia biblioteca romantica e Insaziabili
Letture, per il quale gestisce una rubrica di consigli di scrittura
creativa.
Attualmente
è curatrice della collana di racconti erotici Senza Sfumature per
conto di Delos Digital.
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romanticissimo!grazie Laura per il racconto appena letto!buon natale!
RispondiEliminaGrazie, Michela. Buon Natale anche a te.
EliminaMeraviglia! Laura è capace di condensare in poche battute un'intera gamma di emozioni e poi come rende bene nello storico! Complimenti!
RispondiEliminaLo storico è il mio primo grande amore, quello che non si scorda mai. Grazie per aver letto e commentato, Christiana. Un abbraccio.
EliminaMeraviglia! Laura è capace di condensare in poche battute un'intera gamma di emozioni e poi come rende bene nello storico! Complimenti!
RispondiEliminaRomantico, impalpabile, dolcemente silenzioso come la neve che ammanta tutto di virginale purezza. L'ho trovato davvero delizioso!
RispondiEliminaLieta che ti sia piaciuto, Katy!
EliminaBello Laura ��
RispondiEliminaGrazie, Antonella! 😘
Eliminairresistibile, dolce, romantico. semplicemente bellissimo!!!
RispondiEliminaMa che tenerezza!!! Lui il solito burbero, lei un pasticcino. Davvero un racconto sulla speranza alle soglie del Natale.
RispondiEliminaBrava!
Che racconto tenero, il messaggio contenuto poi credo sia realmente indicato per il periodo che stiamo vivendo. Merita davvero di essere letto!
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