L'appuntamento di oggi di "AMORE FRA LE RIGHE" si tinge di mistero.
"Un bacio" di Amelia R. è un romantico e affascinante racconto di un'autrice italiana molto amata, che scrive per questa rassegna sotto pseudonimo, regalandoci uno dei suoi primi esperimenti letterari.
Scoprite chi è!
UN
BACIO di Amelia R.
Questo racconto ha avuto una vita
travagliata. All’inizio era nato come un esperimento con personaggi originali
ambientato nel mondo di vampiri e licantropi, creature soprannaturali che non
avevano mai trovato spazio nei miei romanzi, ma una volta concluso non sapevo
in che modo proporlo al pubblico. Allora ho deciso di modificarlo per renderlo
una fan fiction inserita nel mondo di Anita Blake, la cacciatrice di vampiri
creata da Laurell K. Hamilton, e poterlo pubblicare in un forum dedicato a
quest’autrice. Adesso, in occasione di questa rassegna di racconti a tema
romantico, lo ripropongo nella sua forma originale: spero che incontri il
vostro favore.
1
L’aria del tardo
pomeriggio profumava di terra umida, un annuncio di pioggia per la sera
imminente. Lasciare l’automobile sulla strada deserta e addentrarsi a piedi tra
gli alberi era una tentazione forte. Immergersi nell’avanzare delle ombre e
scivolare tra i tronchi, accarezzare il muschio verde che li ricopriva,
rotolarsi sul tappeto di foglie rosse e gialle, abbandonarsi al calore e
mutare.
Le lepri nascoste nel
sottobosco avrebbero dovuto attendere ancora, perché non era la caccia lo scopo
della sua gita. Aveva promesso di fare una cosa, un favore a quella che con un
po’ di fortuna sarebbe potuta diventare sua amica.
Sarebbe stato bello
avere di nuovo un’amica, qualcuno con cui parlare e ridere, invece di un altro
abbraccio tremante nel comune orrore. Condividere le sevizie non era la base
migliore su cui costruire un rapporto sereno, aiutava al risveglio dagli incubi
e niente di più. Oppure lei e Nadia, l’unica altra femmina che era sopravvissuta
come lei all’ordalia del loro passato, avevano semplicemente dei caratteri
troppo diversi, che si stavano rivelando in contrasto adesso che entrambe
potevano esercitare il diritto di scegliersi una vita.
Parcheggiò accanto al
cancello e rimase per qualche istante immobile a guardare la villa. Ci era già
stata altre volte da quando si erano uniti al nuovo branco, dopotutto ci viveva
l’alfa, però mai da sola. In quella stagione i fiori che bordavano il vialetto
non erano altro che cespugli verdi leggermente rinsecchiti, i colori vivaci dei
petali solo un ricordo della sua prima visita, il giorno della loro liberazione.
Si era aspettata un nuovo terribile
padrone, allora, le era sembrato inconcepibile che qualcuno in grado di
eliminare Byron, l’enorme lupo nero che aveva dominato la sua vita per troppo
tempo, possedesse anche un animo buono. Il potere conduceva alla follia, lo
aveva sperimentato sulla sua stessa pelle in molteplici occasioni. Si era
sbagliata, era stato l’amore a salvarli tutti.
Una nuova Signora dei vampiri era
arrivata in città, seguita dal suo personale branco di lupi, alcuni dei quali
la servivano da centinaia di anni. Cora non tollerava torture inutili nei
confronti di quelli che avrebbero dovuto aspettarsi protezione dai propri capi,
perciò aveva deciso di ignorare tutte le leggi che regolavano la convivenza tra
le varie specie soprannaturali, intromettendosi nella politica del branco e
benedicendo uno scontro all’ultimo sangue tra Byron e Kellan, l’alfa al suo
seguito. Kellan non possedeva la stazza impressionante di Byron, ma il potere
della sua padrona l’aveva sostenuto e aiutato a vincere.
Ora i due branchi erano stati uniti
sotto il suo dominio.
Un tempo, in un mondo sfumato di colori
differenti dal rosso del sangue, anche Estelle aveva compiuto scelte importanti
in nome dell’amore. Un sentimento travolgente e profondo che credeva l’avrebbe
cullata per il resto della vita. Il prezzo di quello sbaglio lo portava inciso
nel cuore e nella carne, un memento indelebile.
Qualche ora prima, quando si era
offerta per quel compito, l’aveva fatto sull’onda di uno slancio sincero, ma
adesso si stava rendendo conto di provare un pizzico di timore. Non aveva paura
del dolore, una sensazione che ormai il suo corpo non era quasi più in grado di
provare, ma del ritrovarsi da sola in un posto dove non si sentiva del tutto
bene accetta. Era innegabile che lì tutti i lupi del branco fossero i
benvenuti, eppure loro, che prima avevano costituito un piccolo gruppo
separato, avvertivano ancora una sorta di diffidenza. Fidarsi di qualcuno,
soprattutto se potente come Cora e i suoi seguaci, era molto difficile dopo
essere stati assoggettati per anni a un sadico bastardo.
Le scie violacee che si allungavano
all’orizzonte la esortavano a sbrigarsi, il tramonto era imminente. Scrollò le
spalle, uscì dall’auto e si decise a comporre il numero sulla tastiera del
telefono.
“Sono davanti alla casa”.
“Bene. Ho lasciato una chiave per te
nel paletto destro del cancello, se lo tocchi alla base sentirai un buco,
nascosto dall’erba”.
Si accucciò e frugò ai piedi del
pilastro di legno. “L’ho trovata”.
“Quella apre la porta principale.
Adesso devi solo entrare e aspettare, non ci vorrà molto. Non sai quanto ti
sono grata per la tua disponibilità, quando mi hanno chiamata dall’ufficio non
sapevo proprio cosa fare”.
“Mi fa piacere essere d’aiuto, non è
colpa tua se hai avuto un imprevisto. Non preoccuparti, me la caverò”.
“Non devi avere paura”.
“Tranquilla”.
“Adesso devo andare, grazie ancora”.
“Ciao, buon lavoro”.
Silenzio, Susan doveva avere davvero
una gran fretta per lasciarla così. Curare gli aspetti legali dell’impero
economico di Cora era il tipo di lavoro che non lasciava mai un attimo di
tregua, molto diverso da quello che faceva lei. Servire caffè e torte in una
tavola calda non si poteva definire un’attività impegnativa, almeno non nel
buco semideserto in cui passava i suoi pomeriggi da cameriera sottopagata.
Lo scatto della serratura risuonò nel
soggiorno deserto. Nella villa, di solito piuttosto affollata, quella sera non
c’era nessuno, non ancora. Corrugò la fronte davanti ai divani immacolati, il
bianco non le sembrava una scelta saggia, data la natura della maggior parte
dei frequentatori abituali dell’abitazione. Vampiri e licantropi tendono a
lasciarsi dietro tracce di sangue.
Non intendeva violare in alcun modo quello
spazio che non le apparteneva, sebbene sentisse la curiosità di girare per le
stanze e annusare un po’ qua e là. L’odore ormai familiare di Kellan era
ovunque, insieme a quello di svariati altri lupi e vampiri. L’aroma antico di Cora
dominava su tutti, a Estelle era sufficiente quello per capire quanto fosse
potente la vampira che li aveva accolti sotto la sua ala protettrice.
Accese una lampada, perché stare da
sola al buio sarebbe stato troppo morboso, e si sedette nell’angolo del divano
più vicino all’entrata, in attesa. Lasciò vagare lo sguardo sulle pareti,
tappezzate di dipinti e cimeli che testimoniavano la lunga vita della padrona
di casa, ma finì per contemplarsi la punta delle scarpe.
Forse non era vestita nel modo giusto,
avrebbe dovuto scegliere qualcosa di più elegante, ma era la prima volta che si
trovava in una situazione del genere. Jeans e maglietta la facevano sentire a
proprio agio, non aveva pensato all’impressione che davano di lei. Trascurata?
Cosa sarebbe accaduto se non gli fosse andata bene?
Si era intrecciata la massa di capelli
crespi, più per tenerli a bada che per apparire piacente. Era da molti anni che
non pensava a se stessa in termini di bellezza fisica, per quanto ricordasse di
aver ricevuto molti complimenti nel frattempo. Attenzioni non volute né
gradite. Byron, nella sua mente malata e perversa, l’aveva sempre preferita
alle altre femmine del branco, tra le poche che erano riuscite a sopravvivere
anche solo a una notte con lui, Estelle era stata il suo giocattolo favorito.
Sapeva che gli altri credevano che le
piacesse soffrire, dato che dopo un po’ non si era opposta quasi più a ciò che
le faceva. Non era così, semplicemente a un certo punto lei aveva cessato di
provare delle sensazioni. Ricordava il momento esatto in cui, con la punta
della lama d’argento affondata nello sterno, i suoi recettori del dolore si
erano spenti.
La consapevolezza di essere stata
abbandonata aveva compiuto quello che le torture di Byron non erano riuscite a
fare: liberarla dallo strazio di perdurare in vita. Si era spenta, da allora
poco le era importato di ciò che accadeva a quel corpo che si ostinava a
sopravvivere. Quella era la maledizione di tutti i mannari: sanguinare e
straziarsi, ed essere sempre pronti a rifarlo poco tempo dopo.
Insieme al dolore erano scomparse quasi
tutte le altre sensazioni, niente piacere né tenerezza né compassione né
rabbia. Era vuota, dentro di lei non c’erano quiete o pace, ma almeno adesso
c’era silenzio.
Per questo incontrava tante difficoltà
a farsi una nuova amica, ora che era libera. Non c’era motivo di affannarsi,
nessuna gioia da conquistare. Solo piccole cose, come sentire la gratitudine di
Susan al telefono, per fingere anche con se stessa di migliorare e non destare
troppe preoccupazioni in chi vegliava su di lei. Il branco si occupava del
benessere di tutti i suoi componenti, ma Estelle non desiderava attirare troppo
l’attenzione, quella che aveva suscitato nel suo vecchio alfa le era bastata
per almeno una decina di vite.
Il cigolio della maniglia destò la sua
attenzione. Alzò gli occhi: la porta del seminterrato era aperta, lui si era
svegliato.
2
Si fissarono in
silenzio.
Estelle deglutì,
sapeva che tutti i vampiri sotto il dominio di Cora erano creature affascinanti,
ma quello in particolare non l’aveva mai incontrato prima. L’uomo che stava in
piedi davanti a lei era alto e snello, con lunghi capelli del biondo più chiaro
che avesse mai visto e occhi simili a zaffiri splendenti.
“Chi sei?”. Aveva una
voce calda e profonda, indurita appena dalla punta di un accento straniero.
“Sono Estelle, una…
dei nuovi lupi”, balbettò lei.
“Io sono Connor.
Perché sei qui, Estelle?”.
“Susan mi ha chiesto
di… sostituirla”, arrossì, “Deve lavorare e non può…”.
“Sei qui per
nutrirmi”.
“Sì”. Il peso di
quello sguardo, calmo e neutro, la fece arrossire ancora di più. “Se per te…
vado bene”. Susan aveva detto che lui beveva solamente da donne, ma forse
avrebbe voluto scegliere qualcun’altra tra le lupe disponibili. Estelle non le
aveva ancora conosciute tutte, preferendo tenersi ai margini nelle rare
occasioni in cui non poteva esimersi dal partecipare alle riunioni del branco,
ma ne aveva notato che molte di loro sfoggiavano senza vergogna morsi freschi
di vampiro, segno che fungevano regolarmente da donatrici volontarie.
“Non sei obbligata”.
Un sorriso gentile gli increspò appena le labbra. “Quando non lavoro a volte mi
nutro di Susan, ma nessuno ti costringe se sei a disagio”.
“No, non è un
problema”. Cercò di sorridere, senza successo.
Non aveva mai creduto
che la presenza di un vampiro potesse affascinarla tanto, eppure non riusciva a
fare altro che guardarlo. C’era qualcosa in lui, non il potere che avrebbe
potuto emanare, se solo avesse voluto, ma qualcos’altro. Una sorta
d’inquietudine che si agitava sul fondo di quegli occhi azzurri, che invece
sembravano fissarla in placida attesa.
“Dove… vuoi farlo?”.
“Qui andrà bene”.
Connor si avvicinò a
passi lenti, quasi temesse di farle paura, e scivolò in ginocchio accanto a
lei, non meno aggraziato di un felino. Quando lei accennò a sfilarsi la
maglietta, scosse la testa e le rivolse un altro breve sorriso.
“Stendi il braccio,
per favore”.
Estelle arrotolò la
manica della maglia, sforzandosi di non tremare, non capiva se per timore o
trepidazione. Osservò quasi ipnotizzata il vampiro accogliere il suo
avambraccio tra le mani fredde. Il contrasto tra quella pelle pallidissima e il
marrone intenso della sua era nettissimo, pareva accentuare il colorito di
entrambi.
Si era preparata a…
qualcosa, forse un alito di dolore, ma fu la carezza di due labbra morbide a
sfiorarle il polso proteso. Poi ci fu pace, e calore.
3
L’ho fatta scappare.
Non avrei dovuto blandirla, ma il suo animo sembrava così
freddo, così solo… credevo che le avrebbe fatto piacere.
Pensavo di aver conosciuto tutti i nuovi lupi ormai, sono
mesi che si sono uniti al branco eppure lei non era mai venuta in questa casa.
Non riescono ancora a sentirsi a loro agio.
Come biasimarli?
Dopo quello che hanno passato…
Potrei parlare, dire che nemmeno se vivessero altri mille
anni dimenticherebbero…
Io non dimentico, non perdono, non capisco. Se mai c’è stato
qualcosa da capire. Si può davvero comprendere il terrore? Trovare un significato
all’orrore? Non credo.
La mia Padrona respirava dolore, io soffrivo, nient’altro.
Dovrei esserle grato, dopotutto le mie ossa sarebbero
polvere da secoli e secoli se non mi avesse mutato, eppure non ci riesco.
Morire migliaia di volte mi ha tolto qualsiasi senso di riconoscenza.
Dovrei odiarla, per avermi creato debole, eppure, anche se non
mi possiede più, non posso darle altro che paura.
Se il mio fosse sonno, urlerei preda degli incubi.
Se la mia fosse vita, morirei un minuto dopo l’altro.
Sono un vampiro: non sogno, non vivo.
Sono fortunato.
Di aver destato la pietà di Cora, di essere stato riscattato
per servirla. Le è bastato vedermi una sola volta per capire che la mia Padrona
mi aveva portato al limite, che non avrei sopportato ancora per molto tempo le
sue attenzioni prima di perdere del tutto la ragione. Non avevo alcun debito con
lei, eppure Cora mi ha salvato. Non aveva bisogno di un vampiro debole e
spezzato al suo servizio, però mi ha tenuto con sé.
Sono fortunato.
Di essere sopravvissuto più di mille anni alle torture di
una vampira antica, potentissima… completamente folle. Una Creatrice crudele
che ha infuso in me appena una briciola del potere sufficiente a riportarmi in
vita dalla morte atroce che mi aveva inflitto, godendo della mia debolezza
mentre mi uccideva migliaia di altre volte, una notte dopo l’altra.
Fortunato…
Quando servivo la mia Padrona, vivevo nelle segrete del suo
palazzo. Adesso Cora mi ha portato nel mondo, dove posso ammirare il cielo e
respirare aria che non sia intrisa di sangue e morte. Un mondo che tollera i
vampiri, dove i vampiri possono amare ed essere ricambiati. Cora pretende
obbedienza e il rispetto dei nostri donatori, ma le sue regole sono poesia in
confronto al giogo del mio passato.
Le donne che cercano i vampiri mi disgustano. Mordimi,
mordimi… sanno dire solo questo. Come se essere vampiri ci privasse di
qualsiasi sentimento, di ogni desiderio. Non siamo tutti così, io non lo sono.
Forse perché nei lunghi anni della mia vita oscura non sono mai stato neppure
in grado di svincolarmi dal servaggio.
Sviluppare meno potere allontana meno dall’umanità? Io non
credo. Cora è sfolgorante nel suo, eppure, a dispetto dei miei iniziali timori,
quando pensavo di essere passato da una Padrona crudele a un’altra, è
insolitamente umana per essere una vampira plurimillenaria. Il suo potere è uno
scudo sfolgorante, qualcosa sotto cui rifugiarsi e sentirsi al sicuro.
Servire Cora significa vivere con lei, in questa villa
abitata da vampiri e licantropi. Io le sono grato, ma nessuno qui comprende
cosa significhi essere una vittima immortale.
Quella donna, il suo sapore. Lei conosce la solitudine, la
sofferenza ha modellato il suo animo come ha fatto con il mio.
Volevo donarle qualcosa.
L’ho fatta scappare.
Il mondo è cambiato, ciò che ho trovato fuori dalle mura
della mia prigione è una sorpresa continua. Eppure il dolore non cambia mai, né
chi è costretto a portarselo dentro.
L’ho guardata, seduta ad aspettarmi. Ho già visto quello
sguardo, nello specchio, quando sono solo e posso essere qualcosa di più di un
vampiro impenetrabile.
Sotto la patina opaca della paura, però, è una donna
bellissima. Lineamenti delicati e morbide labbra da baciare, e gli occhi… Dolci
ombre grigie screziate d’azzurro, stelle luminose, rese opache dal terrore.
Nel mondo perduto della mia infanzia, prima del dolore e del
sangue, prima della notte nera, quelle stelle hanno già brillato davanti a me.
La donna che mi ha allevato, madre in una vita dimenticata, quando ero un
guerriero celta perennemente in guerra, pregava l’effige di una fanciulla
leggiadra e invocava la sua protezione per me, figlio votato alla spada. Occhi
grigi screziati d’azzurro, colori dipinti ma non meno vivi, ascoltavano le sue
preghiere.
Brigit rispondeva alle preghiere, avvezza all’adorazione.
Quella donna, Estelle, rifugge gli sguardi altrui. Non desidera
l’adorazione, ne ha paura. Dovrebbe camminare come una regina tra gli umani,
invece scivola nella notte e si nasconde.
Un morso e un sorriso, solo questo abbiamo avuto.
Un bacio.
Avrei dovuto darle un bacio.
4
Le gocce di acqua
tamburellavano sul vetro della doccia a ritmo incostante, invisibili nella
nuvola di vapore che la avvolgeva. Con la testa china ad accogliere il getto
bollente, Estelle si sforzava di respirare tra i singhiozzi, mentre l’acqua
lavava via lacrime che credeva di non poter più versare.
Non si era chiusa in
bagno per nascondersi, sebbene da quando potesse scegliere non amasse farsi
vedere nuda nemmeno dal resto del branco. Del resto, il rumore dell’acqua che
scorreva non era sufficiente a coprire quello del suo pianto alle sensibili
orecchie dei suoi coinquilini, gli altri sopravvissuti alla follia di Byron.
Sentir piangere non
era affatto insolito per chi aveva vissuto sotto il loro vecchio alfa, ma
questa volta era diverso. Estelle piangeva perché era felice. Per la prima
volta da anni, non ricordava nemmeno quanti, era realmente felice per qualcosa.
Un tempo la gioia non
le era così estranea, persino la trasformazione alla sua prima luna piena era
stato bella. A differenza di quasi tutti i suoi compagni, lei aveva scelto di
diventare una mannara, per seguire un amore che credeva l’avrebbe protetta da
qualsiasi male. Daniel l’aveva trasformata perché lei l’aveva supplicato, per
mesi e mesi, di renderla uguale a lui, in modo che le loro vite fossero
finalmente uguali in tutto.
Una coppia di lupi
liberi, in perenne viaggio, felici. Finché non avevano incontrato il branco di
Byron ed Estelle aveva deciso di fermarsi, solo per poco tempo, una breve pausa
in un gruppo accogliente e sereno. Non era trascorso molto tempo, però, prima
che Byron mostrasse il proprio vero volto.
Daniel non era mai
riuscito a perdonarla, la incolpava per quel fato infausto, per aver voluto
aggregarsi a quel branco, persino per essere diventata suo malgrado la vittima
favorita del loro nuovo padrone. Togliersi la vita, a dispetto della volontà
implacabile di Byron, era stata la sua unica prova di forza. Non si era
preoccupato delle conseguenze, eppure sapeva che ce ne sarebbero state, doveva
saperlo. Forse tagliarsi la gola di nascosto era stata una vendetta nei suoi
confronti, per averlo amato e portato alla rovina.
Quali fossero le
reali intenzioni di Daniel, Estelle le ignorava, ma non avrebbe mai potuto
dimenticare come aveva appreso del suo suicidio. Incatenata a un letto, in
attesa dell’ennesima notte alla mercé di Byron, l’aveva visto avanzare furioso
verso di lei trascinando un corpo inerme, quello del suo amato morto.
Gliel’aveva buttato addosso, percuotendola con quelle membra ormai rigide,
urlando che, se Daniel era stato così codardo da abbandonarla, sarebbe stata
lei a subire la sua punizione.
All’inizio lo shock
di quella rivelazione era stato smorzato dalla speranza che, finalmente, la
rabbia di Byron l’avrebbe spinto a esagerare con le sevizie, portandola oltre la
soglia di una morte che non si sognava nemmeno più di immaginare. La fine
agognata, la pace.
Le lame d’argento con
cui l’aveva trafitta bruciavano nelle ferite, inchiodandola in uno strazio
infinito, ma ancora lei aveva sorriso dietro le urla, in fiduciosa attesa.
Quando Byron aveva affondato il pugnale nel suo petto ne era stata certa,
sarebbe morta. Lui aveva rigirato la lama avanti e indietro, incidendo solchi
tra i suoi seni, avvicinandosi sempre più al cuore, infine aveva affondato una
mano parzialmente mutata dentro di lei e l’aveva stretto quasi gentilmente,
quell’organo che batteva sempre più lento.
L’aveva baciata,
lentamente e a lungo, con la dolcezza di un vero amante, non di un torturatore
sadico, e poi aveva sfilato la mano, un sorriso compiaciuto sulle labbra e
un’assoluta mancanza di pietà negli occhi.
“Tu vivrai”, aveva
detto. “Tu sei mia e non mi lascerai mai”.
Allora Estelle aveva
gridato davvero, incapace di articolare parole, urlando il dolore della perdita
e la rabbia dell’abbandono. Aveva gridato e gridato, incatenata tra lenzuola
calde del suo stesso sangue, che lentamente si erano asciugate e seccate,
durante i lunghi giorni di febbre e delirio che erano occorsi al suo corpo per
guarire. Solamente quando quell’orribile ferita si era richiusa, Byron l’aveva
liberata, costringendola a sopravvivere alla morte del proprio animo.
Persino adesso,
nascosta agli occhi del mondo, Estelle non osava alzare la mano e sfiorare la
cicatrice che le correva sullo sterno, una linea frastagliata più fredda del
resto del corpo, il memento indelebile che anche i mannari non potevano guarire
del tutto da certe ferite, almeno non quelli poco potenti come lei.
Dalla notte del
suicidio di Daniel, lei era stata una sorta di morta vivente, una sonnambula
della vita impermeabile a qualsiasi emozione. Fino a quella sera. Fino a quando
la doppia puntura delle zanne di Connor le aveva regalato un istante di
dolcezza, quasi di piacere.
Il vampiro si era
comportato in modo encomiabile, da vero gentiluomo, nutrendosi senza quasi
toccarla. E, un istante prima che si staccasse, Estelle aveva avvertito un
brivido caldo correre dal punto in cui erano in contatto su lungo il braccio e
poi giù, fino al nucleo ghiacciato in cui era intrappolata la sua anima.
Ignorava se lui l’avesse fatto di proposito, non aveva osato chiederglielo.
Connor aveva lambito
con la punta della lingua il segno del suo morso, aveva guidato con gentilezza
la sua testa sui cuscini del divano e atteso in silenzio che lei si
riprendesse. Passata la spossatezza per averlo nutrito, Estelle si era sentita
goffa come non mai, mentre schizzava fuori da quella casa borbottando un
saluto.
Il vampiro l’aveva
accompagnata all’auto senza tradire la benché minima traccia di emozione, il
volto inanimato come quello di una statua, una splendida e freddissima statua.
Solamente quando lei aveva aperto la portiera, le aveva rivolto la parola.
“Ti ringrazio, spero
che non sarà il nostro unico incontro”. A dispetto dell’apparente distacco, la
sua voce era stata dolce. Dopo le aveva sorriso, un sorriso vero, che gli aveva
illuminato gli occhi e addolcito i lineamenti severi.
Il calore di quel
sorriso la stava ancora riscaldando, più dell’acqua che le scorreva addosso da
circa venti minuti. Per un attimo fugace, Estelle si era sentita bene, come se
qualcun altro fosse in grado di capire davvero quello che aveva passato, le
esperienze che le avevano forgiato il cuore in una corazza gelida e
impenetrabile.
Impaurita dal
risveglio inaspettato delle proprie emozioni, era scappata via senza salutarlo.
Non aveva osato nemmeno ricambiare il sorriso, quasi temesse di non saperne più
fare uno sincero.
Adesso si pentiva di
quel comportamento, non tanto per la scortesia dimostrata, quanto per la remota
speranza di poterlo nutrire ancora, e magari provare di nuovo quella piacevole
sensazione dentro di sé.
Estelle voleva
sentirsi viva, di nuovo.
La porta del bagno
tremò sotto una scarica di colpi, riportandola violentemente al presente.
“Ci vuoi invecchiare
là sotto?”. Il ringhio di Benjamin la fece trasalire, il suo coinquilino non si
era ancora ripreso dalle sevizie subite per mano di Byron, forse non l’avrebbe
mai fatto.
Questo non gli
impediva di comportarsi come un vero stronzo.
5
Le luci intermittenti
accarezzavano una folla in movimento, poco più che figure indistinte tra la
calca a occhi umani. Non ai suoi. Estelle fissava un punto preciso, un corpo
che pareva fluttuare nel gruppo, una macchia di colore tra i toni scuri che lo
circondavano.
Si era ritrovata a
programmare quella serata in modo furtivo, dapprima quasi di nascosto anche da
se stessa. Era stato facile non dire a nessuno che quello era il suo giorno
libero, evitando che qualcuno spostasse i propri impegni per non lasciarla
sola.
Nadia era alla scuola
serale, accompagnata da uno dei lupi del branco, perché senza scorta
praticamente non muoveva un passo fuori da casa. Stava provando a riannodare i
fili della sua vecchia vita, prima della catastrofe, quando frequentava il
college e non trasaliva al minimo accenno d’interazione da parte di un
estraneo.
Kellan era impegnato,
in qualità di capobranco, a sostituire Cora a una riunione della comunità
soprannaturale, perché lei era fuori città insieme a molti dei suoi seguaci,
per adempiere a non meglio precisati doveri da Signora dei vampiri.
Nessuno sapeva che
Estelle, al posto della divisa azzurrina della tavola calda, aveva indossato un
abito verde mare che le lasciava scoperta gran parte della schiena, forse un
po’ troppo corto per i suoi gusti, ma uno dei pochi nel suo armadio abbastanza
accollato da coprire del tutto la cicatrice sul petto. Con la massa di capelli
sciolti, comunque, si sentiva la schiena abbastanza al sicuro dagli sguardi
altrui.
Il fulcro attorno al
quale avevano ruotato i suoi pensieri nell’ultima settimana, in un misto di
timore e curiosità, si trovava adesso qualche metro sotto di lei, sulla pista
da ballo del club che apparteneva a Cora, un locale in cui gli umani potevano
mescolarsi con i vampiri e offrirsi come pasto in tutta sicurezza. Il suo
profumo antico era una nota chiara nel miasma del sudore e dell’eccitazione
umana. La donna abbandonata tra le sue braccia lo ignorava, persa in
fantasticherie fin troppo evidenti, ma il suo cavaliere non era realmente attratto
da lei. I movimenti sinuosi del vampiro erano forzati, privi della grazia
innaturale di cui era capace.
Chissà, forse a
Connor non piacevano le rosse. Stringeva un poco di più le labbra ogni volta
che i capelli della donna, assecondando il ritmo del ballo, scivolavano verso
di lui e gli sfioravano il petto o le braccia. Sembrava che gli importasse
maggiormente evitare il contatto con quelli, piuttosto che con i fianchi che la
sua compagna, dimostrando ben poca discrezione, gli premeva a intervalli regolari
contro l’inguine.
Appoggiata alla
balaustra della balconata del primo piano, Estelle osservava la scena. Quella
era la sesta donna che vedeva ballare con lui, la prima che sembrava
suscitargli qualcosa di diverso dal sorriso seducente e impersonale che
sfoggiava da quando lei era arrivata. Probabilmente quella era la sua
espressione professionale, la maschera che le clienti del locale si aspettavano
di vedere sul volto di un vampiro. Flirtare con il pericolo doveva apparire
loro come un’enorme trasgressione, danzare con la belva, arrivare persino a
nutrirla, ma uscirne incolumi. Molto sciocco e ingenuo, nonché umiliante per un
vampiro che, per quanto ne sapeva lei, doveva essere al mondo da parecchie
centinaia di anni. La mancanza di potere, tuttavia, poteva comportare
conseguenze ben peggiori di una piccola umiliazione, nessuno l’aveva scoperto
bene, o male, quanto lei.
La musica sfumò in un
ritmo più tranquillo ed Estelle si protese, incuriosita, in cerca della
prossima che lui avrebbe invitato a ballare. Connor, però, non si avvicinò a
una delle donne ferme lungo il bordo della pista, in attesa di essere scelte
dai vampiri presenti. Alzò la testa senza muovere un passo, come se sapesse già
con precisione dove guardare, come se l’avesse individuata da tempo e avesse
aspettato solo quella pausa per puntare su di lei l’insondabile profondità del
proprio sguardo.
Non ci fu spazio per
domande o incertezze. Estelle scivolò verso la pista con la potenza fluida del
lupo nascosto in lei, il calore crepitante della bestia indusse le persone a
scostarsi per lasciarla passare e creò un corridoio vuoto nella calca.

“Mi stavi guardando”.
La voce di Connor era profonda come ricordava.
“Sì, io…”, deglutì,
“Ti guardavo ballare”.
“Faccio il mio
lavoro, intrattengo le clienti”.
La nota amara se
l’era immaginata o c’era davvero? Estelle si morse il labbro, si sentiva una
vigliacca ma non osava alzare lo sguardo e controllare.
“Adesso non vuoi più
guardarmi?”. Una richiesta sussurrata, priva di derisione.
“No, cioè… sì”. Un
sorriso timido affiorò dal passato, da quella che lei non sarebbe mai potuta
tornare a essere. Quasi al rallentatore reclinò la testa e vide il suo di
sorriso, quell’espressione dolce che l’aveva rincorsa dal loro primo incontro e
che, come allora, riversò dentro di lei un rivolo di calore. Un’ombra di vita.
“Buonasera, Estelle”.
Su quelle labbra sottili il suo nome aveva un sapore nuovo, diverso.
“Buonasera, Connor”,
riuscì a rispondere lei.
“Sei venuta per
ballare?”.
“No, volevo
solamente… vederti”.
Estelle sentì la
propria voce pronunciare quelle parole e capì che quella non era la verità. No,
lei sperava, lei aveva bisogno, lei doveva… toccarlo ancora una volta,
sentirlo. Sentire se stessa.
L’espressione
dubbiosa di Connor, quel sopracciglio sollevato a formare un arco dorato,
diceva chiaramente che nemmeno lui credeva alla sua risposta. Eppure tacque, la
condusse in una danza vorticosa e dolce, priva della lussuria strisciante che
li circondava. I loro piedi volavano senza incontrare ostacoli, Estelle planò senza
sforzo sui tacchi smisuratamente alti che si era messa per compensare in
qualche modo il dislivello che li separava. Si lasciò portare, abbandonandosi a
lui priva del timore che l’accompagnava sempre.
Eppure l’abitudine
riuscì a insinuarsi in quel momento sospeso, guastandone la perfezione. Gli
sguardi bramosi attorno a loro sviarono l’attenzione di Estelle, rendendola
improvvisamente consapevole delle persone che li osservavano. Le coppie sulla
pista erano rapite dalla sensualità innata scatenata da quelle due creature
sovrannaturali, che per una volta si stavano comportando con naturalezza al di
fuori del loro mondo nascosto.
La paura, sentimento
quanto mai familiare, le attanagliò lo stomaco. Deglutì, pronta a fermarsi, ma
non ebbe il tempo di fare altro, perché Connor la avvicinò maggiormente a sé,
spostando un braccio a cingerla con intento protettivo. La sua mano era
talmente grande da ricoprirle la parte bassa della schiena, i polpastrelli
leggermente ruvidi le accarezzavano la pelle con delicatezza.
Per un istante
Estelle si concesse di stupirsi per quel particolare: quale attività poteva
guastare la perfezione del suo corpo innaturalmente vivo? Poi un movimento li
portò ancora più vicini, essere quasi avvolta da quel fisico massiccio si
rivelò, incredibilmente, piacevole. Il suo corpo era una solida realtà contro
quello di Estelle, non solo conturbanti membra da bramare. Connor le stava
offrendo se stesso, non il vampiro da vetrina ma la persona che stava dietro la
sconfinata distesa azzurra del suo sguardo.
Estelle lesse una
forza pacata in quegli occhi. Quelli erano semplici umani, invidiosi di ciò che
desideravano ignorando la verità: grazia immortale e bellezza erano condanne,
non virtù. Loro, però, sapevano, loro condividevano più segreti di quanti i
pochi istanti trascorsi insieme avrebbero mai potuto racchiudere.
La musica si spense
troppo presto, o forse troppo tardi. Non c’era più tempo per tornare indietro,
per disfare quel qualcosa senza nome che si era intrecciato tra loro. Ecco
perché Estelle annuì, quando si sentì chiedere: “Posso accompagnarti?”.
Connor sciolse
l’abbraccio che ancora li univa ma la tenne per mano, mentre raggiungevano un
vampiro alto e moro che controllava il locale, in piedi accanto all’entrata. La
sua stretta era leggera, le dita fredde e delicate.
“Ho bisogno di andarmene
prima stanotte”. Connor sussurrava, sapendo che l’altro vampiro poteva
sentirlo. “Devo riportare a casa una dei lupi”.
Il vampiro lanciò
un’occhiata a Estelle, alle loro mani unite, senza rispondere.
Connor fece un cenno
con la testa. “Grazie”.
Evidentemente quello
era stato un assenso. Estelle non conosceva abbastanza i vampiri da
comprenderli.
Connor chinò la testa
e i suoi capelli, un velo color oro pallido, le solleticarono il volto. “Ti
dispiace se mi cambio, prima?”.
Estelle scosse la
testa, le sembrava di non essere più capace di parlare. O forse non ce n’era
alcun bisogno, lui sembrava capire quello che voleva meglio di lei stessa. La
osservò in silenzio allontanarsi per riprendere la borsetta dalla
guardarobiera, poi riaccolse la mano che lei, con un timido accenno di
movimento, gli stava porgendo. Restare separati sembrava improvvisamente
sbagliato.
Attraversarono il
locale, scivolando tra la gente come acqua tra le rocce, leggeri, impalpabili.
Una porta mimetizzata nella tappezzeria li introdusse in un corridoio bianco su
cui si affacciavano numerose stanze. Connor entrò nella prima e chiuse anche
quella porta. Erano di nuovo soli, la musica assordante solo un mormorio
indistinto. Una calma insolita e straordinariamente benvenuta fluiva dal
vampiro a Estelle attraverso l’intreccio di dita che li univa.
“Aspettami, ci
metterò un attimo”. Le indicò un divanetto e sparì dietro a un paravento.
Estelle si sedette e
accolse in grembo la mano che lui aveva appena lasciato, sentendosi
improvvisamente persa, nervosa. Gli specchi appesi alla parete di fronte a lei
riflettevano la sua immagine: una donna minuta con una criniera di capelli
crespi color caramello, labbra carnose e occhi spenti. Un tempo qualcuno
l’aveva definita una bellezza creola, secoli prima, in un’altra vita.
Gli specchi, però,
mostravano anche qualcos’altro. La schiena pallida di Connor che lasciava
cadere la camicia dalle spalle, il flettersi dei suoi muscoli mentre prendeva
una maglia verde e l’infilava, l’evidente mancanza di biancheria intima quando
iniziò a slacciarsi i pantaloni di pelle.
Gli occhi di Estelle
saettarono per la stanza, alla disperata ricerca di un angolo privo di specchi,
invano. Fissò il pavimento lucido per alcuni interminabili secondi, persino lei
riusciva a fiutare la reazione istintiva del proprio corpo. Incredibile, dopo
tutto quel tempo era di nuovo in grado di eccitarsi per qualcuno. Anche lui
doveva essersene accorto. Per forza, era un vampiro, non un semplice essere
umano. Eppure, misericordiosamente, non proferì parola.
Tornò da lei in jeans
e maglietta, ancora meraviglioso nonostante la mancanza di stoffe lussuose e
costumi di scena. A braccia incrociate, con i fianchi appoggiati allo stretto
tavolino che correva lungo la specchiera, Connor taceva e, per la prima volta,
Estelle si domandò se non fosse nervoso quanto lei, dietro la maschera pallida
della sua non morte.
“Vuoi che ti
accompagni a casa?”.
Una richiesta
semplice, formulata con voce dolce, senza l’intento di liberarsi di lei,
tutt’altro. Non serviva l’intuito di un mannaro per cogliere la speranza di una
risposta negativa insita in quelle parole.
Estelle prese un
respiro, poi un altro. “Perché non ti piacciono le donne con i capelli rossi?”.
La superficie
perfetta del volto di Connor s’incrinò, l’attesa serena si sgretolò lasciando
trapelare angoscia, terrore. Adesso fu il suo turno di inspirare profondamente,
in cerca di ossigeno, che in realtà non sarebbe stato di alcuna utilità al suo
corpo. La fissò per qualche istante, poi sollevò un angolo della bocca in un
sorriso imbarazzato. “Sei un’ottima osservatrice”.
Lei si strinse nelle
spalle, quasi pentita di avergli chiesto spiegazioni.
“Colei che mi ha
fatto aveva i capelli rossi”.
Questo chiariva molte
cose. “Quindi non fu una tua scelta”.
Le onde bionde
splendettero come fili dorati mentre Connor scuoteva la testa.
“Io pretesi di essere
morsa”. Ricordi sbiaditi le strapparono un sospiro. “Il mio compagno era un
lupo, non potevo sopportare che la sua… diversità ci separasse”.
Il vampiro inclinò la
testa, sembrava riflettere. “Un amore invidiabile”.
“Tu credi?”.
“Non sono in grado di
giudicare, non con la mia… esperienza”.
Estelle si accigliò,
pensava che un essere pluricentenario avesse sperimentato qualsiasi cosa. “La
mia”, si sfiorò il petto con una mano, “mi ha insegnato abbastanza”.
“E mi hai cercato per
questo?”.
“No, volevo chiedere
un morso anche a te”.
6
Probabilmente solo
colpendolo al petto con un paletto di legno Estelle avrebbe potuto provocare
una reazione simile in Connor. Il vampiro, se possibile, sbiancò. Aprì la
bocca, forse per parlare, senza dire nulla.
Estelle deglutì, gli
doveva delle spiegazioni, per quanto difficili potessero essere. “Tu sai… del
nostro passato, di quello che il mio branco ha subito”.
“Sì”. Una sillaba,
gli fu sufficiente una sillaba per dimostrarle che lui capiva. Lo scintillio di
quei bellissimi occhi si fece mesto, dietro c’era un abisso di orrore che
entrambi avevano attraversato, non incolumi ma vivi, o almeno non morti.
“Io da allora… sono…”.
Non riusciva a trovare le parole, forse non esistevano.
“C’era solamente il
dolore, e poi non c’è più stato nient’altro”, mormorò Connor.
“Sì”. Fu il suo turno
di essere laconica e infinitamente loquace insieme. “Ma l’altro giorno, quando
ti sei nutrito da me… io ho sentito qualcosa”. Estelle strinse i pugni. “Io
devo sapere se… posso…”.
“Sentire”, terminò il
vampiro.
“Suona meschino detto
in questo modo, però…”.
“Non sei affatto
meschina. Sarei felice di poterti aiutare”.
Ancora una volta
Connor avanzò verso di lei lentamente, forse per non spaventarla, e posò un
ginocchio a terra, vicino eppure attentissimo a non sfiorarla, nemmeno quando
protese una mano, pronto ad accogliere il suo polso. Non la stava guardando in
faccia, ma non per mancanza di rispetto. Dal modo in cui aveva contratto le spalle,
sembrava volersi bloccare, trattenersi dal fare qualcosa… Toccarla?
Estelle ammirò la
linea perfetta delle sue labbra, rosse per il contrasto con il biancore
assoluto della pelle. Si scoprì quasi golosa. Voleva scoprire il loro sapore.
Le avrebbero ricordato il sangue delle sue prede?
Osservandolo lì,
inginocchiato ai suoi piedi in attesa, odiò se stessa. Ma cosa stava facendo?
Chiedere un morso non era un comportamento migliore di quello di tutte le umane
che aveva visto strusciarsi contro di lui, come se fosse un anonimo giocattolo
sessuale. Quello che lei era stata per lungo tempo. Come poteva umiliarlo a
quel modo, lei che conosceva l’umiliazione meglio di una parte del proprio
corpo?
Connor fu attraversato
da un brivido e iniziò a scostarsi. “Scus…”.
Estelle lo interruppe
posandogli una mano sulla guancia. “Fermati”.
Il volto di Connor
sussultò a contatto con la sua pelle innaturalmente calda. “Hai cambiato idea,
va bene”.
Quel sussurro la
pugnalò. Conosceva l’emozione in grado di spezzare così il respiro, la lesse
negli occhi che lui alzò su di lei. Non credeva che un vampiro potesse provare
vergogna. Avvertì il suo desiderio di sfuggirle e gli cinse il volto anche con
l’altra mano per trattenerlo.
“Non voglio usarti”.
Connor deglutì,
sembrava spaventato. “Non mi stai usando”.
“Pretendere un morso
del tuo potere senza darti niente in cambio…”. Tacque. Era evidente dal tremore
che gli attraversava il corpo che lui stava ricevendo qualcosa da lei.
Estelle sorrise,
deliziata da quella scoperta. Colmò il soffio che li separava e lo baciò, una
carezza a fior di labbra.
Connor non si mosse.
Le sue labbra erano soffici e tremavano a contatto con le sue, quasi fosse
terrorizzato da quel contatto. Estelle aprì gli occhi e vide la paura di essere
respinto, vide il desiderio di essere amato: vide se stessa riflessa nella luce
brillante delle sue iridi.
Continuò a fissarlo e
lo baciò ancora, poi restò in attesa, l’aria che solo lei stava respirando
unico velo tra loro.
Connor strusciò due
volte una guancia contro la sua mano, lentamente. Posò la bocca sulla sua e
imitò il suo bacio. Gli sfuggì un sospiro e un lungo fremito gli attraversò il
corpo. Un altro bacio lieve, un incontro di labbra esitanti, poi un singulto strozzato
crebbe nella gola del vampiro, che succhiò con forza il labbro inferiore di
Estelle prima di ritrarsi.
Avevano entrambi il
respiro affannoso adesso.
Estelle sorrise
ancora e questa volta Connor la imitò. L’azzurro intenso dei suoi occhi
sfavillò, incorniciato dalle mani scure della lupa.
Se anche ci fosse
stato bisogno di parole, in quell’istante Estelle non si sentiva fisicamente in
grado di pronunciarle. Il desiderio di essere baciata le sbocciava in gola,
correva nel sangue che le imporporava le guance, pulsava nel punto in cui la
loro pelle s’incontrava.
Lentamente, Connor
sollevò una mano e seguì con la punta delle dita il contorno del
suo viso,
scese lungo il collo e sfiorò i ricci adagiati sulla spalla. “Sei… calda”,
mormorò, poi storse la bocca in una smorfia imbarazzata, quasi sapesse di aver
sottolineato l’ovvio.
“Io…”. Il brontolio
basso della lupa, risvegliata da quell’accenno di passione, si mischiò al
sussurro di Estelle, incupendole la voce.
La mano del vampiro
girò a cingerle con delicatezza la nuca. Il lento massaggio delle sue dita
spinse Estelle a ruotare la testa, invocandone ancora. Lo sguardo di Connor si
fissò sui denti che lei affondò nel labbro inferiore.
In un attimo Estelle
si ritrovò contro lo schienale del divano, il corpo del vampiro incuneato tra
le gambe, le sue mani appoggiate gentilmente sui fianchi, gli occhi una
disperata richiesta a pochi millimetri dai suoi.
Estelle sollevò il
mento come risposta e si offrì come pensava di non poter fare mai più. Quello
di Connor non fu il bacio affannoso che lei si aspettava. Un bacio dolce, la
punta della lingua che le schiuse piano le labbra e s’insinuò nella sua bocca
ansante, le zanne che premevano senza scalfire, un sapore ramato che accomunava
le loro diversità.
7
Il corpo di Connor
era stranamente freddo a contatto con il suo di licantropo. Mentre lui si
sfilava la maglia, Estelle gli succhiò la clavicola e assaporò la sua pelle.
Scese con una scia di baci sul suo petto di perla, vagamente conscia che quello
che stava per succedere era, per la prima volta da anni, una sua scelta.
Qualcosa che non avrebbe comportato né dolore né umiliazione.
Connor le cinse di
nuovo la nuca con una delle sue grandi mani, le rovesciò la testa all’indietro
e percorse l’arco del collo con la bocca. Un tocco umido che divenne un bacio
sul lobo dell’orecchio.
“Dimmi tu quando vuoi
che mi fermi”, mormorò.
Lei ansimò. “Non
fermarti”.
L’altra mano le
accarezzò il fianco, scostò l’orlo del vestito e risalì sotto la stoffa. Il
palmo freddo si riscaldava accarezzando la sua carne calda. Le dita un tocco
leggero sulla coscia, ancora sul fianco, un giro a sostenere il suo peso. Seguì
l’orlo liscio degli slip, sotto cui pelle ancora più liscia fremeva per essere
toccata.
Connor cercò il suo
sguardo e la sua bocca. Mentre si baciavano, in uno scambio di lingue sempre
più affannoso, la accarezzò con la punta di un dito e assorbì nel proprio corpo
il lungo brivido che la attraversò. Affondò piano dentro di lei senza smettere
di fissarla negli occhi, le palpebre socchiuse e un’espressione di assoluta
riverenza sul volto.
Sciogliendosi poco a
poco in quella carezza umida, Estelle si aggrappò alle sue spalle e gli offrì
la gola, certa che i suoi baci o eventuali morsi non l’avrebbero squarciata
come altri in passato. Il calore crescente in lei riverberò in respiri spezzati
e ansiti che Connor bevve dalla sua pelle e dalla sua bocca.
Quando infine le
mancò la voce, il vampiro la distese sul divano e la sovrastò, ma sollevato
sulle mani, senza gravarla con il proprio peso, come se temesse che lei non
l’avrebbe tollerato. Le baciò il seno, la succhiò attraverso la stoffa del
vestito, ultimo confine che sembrava guardarsi bene da rimuovere, cosa di cui
Estelle gli era grata. Nascondere se stessa era più semplice che spiegarsi.
Lo voleva più vicino.
Infilò le dita nella coltre spessa dei capelli che gli ricadevano a lato del
volto, glieli lisciò all’indietro e ammirò i riflessi di oro bianco che li
percorrevano. L’insicurezza in quegli occhi luminosi le diceva che aspettava di
essere scacciato, come se ormai vi fosse abituato.
Con un sorriso, e
un’audacia di cui si scoprì incredibilmente ancora capace, Estelle lo attirò
sopra di sé. Premette le mani in una duplice carezza a esplorare la levigata
perfezione della sua schiena, incontrò il bordo ruvido dei pantaloni e decise
che era il momento di diventare ancora più audace. Gli slacciò i bottoni uno per
volta, una serie di schiocchi decisi che accesero un lampo divertito sui loro
volti vicini, e gli fece scorrere i jeans giù per le lunghe gambe muscolose.
La pelle di Connor
possedeva una grana finissima, lontana dalla rigidità che ci si sarebbe
immaginati nella non morte dei vampiri. Estelle gli massaggiò i glutei sodi e
percorse con l’indice la sua lunghezza tesa, strappandogli un sibilo dalle
labbra dischiuse. Aveva voglia di baciarlo, di scoprire il suo sapore, di
morderlo piano…
Lui non le lasciò il
tempo. Con una mano le sfilò gli slip, lasciandoli a pendere da una caviglia, e
con l’altra si guidò fino a lei, domandando ancora una volta il permesso senza
parlare. Gli bastava guardarla per farsi capire. Estelle gli andò incontro e si
lasciò colmare. Un incontro di carni palpitanti, per una volta ugualmente calde.
Fremiti identici li
percorsero entrambi, mentre esitavano con le fronti e i respiri congiunti.
Estelle lo baciò, mordicchiandogli le labbra e strusciando la lingua contro le
zanne, e allora Connor prese a muoversi dentro di lei. La forza che avrebbe potuto
spezzarla imbrigliata nelle spalle contratte e nelle braccia tese.
Lei, però, non era
umana, non aveva paura. Intrecciò le dita con le sue e le guidò dove sentiva
che volevano andare, strette ai suoi fianchi, premute contro i seni protesi.
Ogni spinta li avvicinava di più, finché lo spazio del divano sembrò non essere
più sufficiente per contenerli. Senza lasciarla, Connor la sollevò per i glutei
e si sedette reggendola in grembo. Estelle afferrò i suoi capelli per mantenere
l’equilibrio, strappandogli una smorfia, allora con un risolino di scuse spostò
le mani e gli cinse il collo.
L’onda di movimento
impressa ai loro corpi dai colpi di Connor avvicinò i loro sorrisi. Erano
felici. Liberi nel piacere reciproco. Non vampiro e licantropa intrappolati
nelle spire del potere, ma uomo e donna, semplicemente.
Un altro bacio,
un'ultima spinta, un urlo roco si riversò dall’uno all’altra. Scoprire di poter
respirare ancora li fece scoppiare a ridere.
Con gesto elegante,
Connor si portò le sue mani alla bocca e posò un bacio sulle nocche senza
smettere di guardarla e sorridere.
La dolcezza
disarmante del suo sorriso spaventò Estelle. All’improvviso si sentì troppo
vulnerabile, mezza nuda in grembo a un vampiro semisconosciuto. Una fitta di
panico le bloccò il respiro, il suo corpo s’irrigidì, perso nel gorgo oscuro
dei ricordi.
“Cosa…?”. Connor
corrugò la fronte.
Incapace di
rispondergli, Estelle strappò le mani dalle sue e saltò in piedi. Raccolse i
sandali, che non ricordava nemmeno di aver perso, e la borsetta dall’angolo in
cui era caduta. Si precipitò fuori, via, lontano. Da lui e da se stessa.
8
Ancora. L’ho fatta scappare ancora.
I suoi occhi accesi dalla passione sono veramente due
stelle. Brillavano su di me, poco fa. Brillavano per me.
Che cosa ho fatto per farla scappare?
Mi ha lasciato un brandello di stoffa. Dovrei tenerlo, come
pegno, come ricordo.
Farei meglio a gettarlo.
Cora è comprensiva, ma se scoprirà che ho contravvenuto alle
regole sarò punito. Non mi è consentito stare con le clienti qui nel locale,
solamente nutrirmi.
Estelle, però, non era una cliente. Non è venuta ricoperta
di lascivia per strusciarsi contro il mio corpo immortale. Ha detto di
desiderare un morso, come molte altre, ma non l’ha chiesto per lo stesso
motivo.
Prima del dolore, prima di trovare un padrone crudele,
doveva essere una donna mirabile, splendida nel proprio raro coraggio.
Scegliere di mutare per amore… Provare un simile sentimento non mi è stato
concesso, ero solo quando la mia Creatrice mi ha trovato. Forse è stato meglio
così, non ha potuto portarmi via anche quello.
Risvegliarsi dall’inedia indotta dal dolore è difficile,
spesso impossibile. Io stesso non sono certo di averla sconfitta, forse mi
limito a scorgere i bagliori oltre la soglia senza poterla oltrepassare.
Con lei tra le braccia mi sono illuso, per un attimo
fuggevole, ma sbagliavo.
L’avrei morsa.
Solo quello, se avesse voluto.
Mi ha concesso molto di più.
Mi ha donato tutto.
Potrei perdermi nei suoi occhi, per il dolce stupore con cui
mi guarda, per la tenerezza del suo sorriso. E il suo calore…
Ho avuto altre donne, dopo… la mia Padrona. Sesso vuoto,
triste.
Il desiderio di Estelle era sincero. Dolcissimo.
Ho avvertito la sua essenza ferale da quando è entrata qui,
stasera. Ho ballato solo per i suoi occhi, finché non è stata pronta.
Leggiadra piccola regina, Brigit sarebbe stata onorata di
prendere in prestito le sue sembianze.
Ho avuto il bacio che desideravo.
Ora vivrò nella notte solo per baciarla ancora.
9
“Guarda guarda…”.
Estelle sussultò, non
si era accorta che ci fosse qualcun altro nell’appartamento. Era corsa via dal
locale, fermandosi in un vicolo il tempo necessario a calzare i sandali e
rendersi conto di aver dimenticato la biancheria intima sul pavimento del
camerino. Non poteva pensare a quel che aveva fatto insieme a Connor, a come lo
aveva lasciato senza una spiegazione nonostante il suo incredibile dono.
Quel vampiro, quel
bellissimo uomo dagli occhi dolci, le aveva ridato una parte di se stessa che
credeva perduta per sempre. Poteva ancora provare piacere, sentirsi amata.
Era terrorizzata.
“Da dove vieni
vestita così?”. Benjamin attraversò il soggiorno a passo malfermo e, con una
spalla appoggiata alla porta del bagno per non cadere, inclinò la testa per
guardarla.
La bottiglia di
tequila che aveva in mano era quasi vuota ma non bastava a spiegare il suo
stato. I licantropi non barcollavano dopo una bottiglia, forse dopo due o tre.
Doveva aver preso dell’altro.
“Hai ricominciato con
le pasticche? Kellan si arrabbierà”. Sarebbe stato bello vederlo tremare
davanti al loro alfa, gli avrebbe tolto quel ghigno strafottente dalla faccia.
Benjamin buttò la
testa indietro e ingollò il resto della tequila. “Paparino si arrabbierà, che
paura…”. Rise, una risata sgradevole che la fece rabbrividire. “E cosa mi farà?
Cosa farà per punirmi che non mi sia già stato fatto? Sopravviverò”.
Non voleva parlare
con lui, aveva bisogno di restare sola. “Fossi in te, mi darei una ripulita
prima che torni Nadia e glielo dica”. Rifugiarsi sotto la doccia non era
fattibile, non con lui che bloccava la porta.
“E tu non vuoi
pulirti?”. Benjamin annusò l’aria e rise di nuovo. “Oh… sorpresa! La
principessa di ghiaccio si è sciolta per qualcuno”. Fiutò ancora, poi fece una
smorfia. “Un vampiro? Ti sei lasciata fottere da un vampiro?”.
“Sta zitto!”. Gli
passò davanti diretta alla propria camera. “Chiudi la bocca e fatti gli affari
tuoi”.
“Ma questi sono
affari miei”. Benjamin la afferrò per un braccio. “Ti ho avuta sotto abbastanza
volte perché quello che hai combinato stasera mi riguardi”.
Estelle sgranò gli
occhi, sconvolta. Nessuno di loro parlava mai del passato, era un tacito
accordo fingere che nulla di tremendo fosse accaduto al loro branco. Serviva
per andare avanti.
“Io ti piacevo”. Le
strusciò la bocca sulla guancia. “Quando lui mi buttava su di te, ti piaceva”.
“Lasciami!”. Estelle
scrollò il braccio. Non riusciva a credere che Benjamin stesse parlando di
Byron con una tale noncuranza. Come se quel mostro non avesse torturato anche
lui innumerevoli volte.
“Ti sei fatta legare
dal tuo vampiro?”. La presa di Benjamin si rafforzò, le sue dita affondarono
nella sua carne scura sbiancandola. “Gli hai detto cosa ti piace?”.
“Non mi è mai piaciuto
quello che mi faceva, lo sai, a nessuno di noi piaceva!”. Si divincolò
inutilmente. “Lasciami andare!”. Era impossibile che stesse succedendo di
nuovo. Non dopo essersi finalmente liberata del gelo, non dopo… Connor.
“Hai fatto divertire
un morto”, Benjamin usò il fondo della bottiglia per sollevarle il mento, “Non
vuoi farlo anche con me?”.
La morsa del panico
le strinse la gola e per un attimo Estelle si paralizzò. Conosceva la frenesia
che si agitava negli occhi di Benjamin, sapeva cosa sarebbe successo. Se stava
ferma e buona, forse lui non le avrebbe fatto troppo male… Un grido rabbioso le
crebbe dentro. “No!”, gli sibilò davanti alla faccia, “Tu non sei Byron, non
puoi farlo e restare impunito: Kellan ti ucciderà”.
“Pensi che ti
crederà? Dopo tutto quello che ti sei lasciata fare dal nostro padrone?”.
Estelle voleva
interrompere la sua risata con uno schiaffo, ma Benjamin fu svelto a mollare la
bottiglia e afferrarle la mano. La gettò a terra con una spinta e subito le fu
sopra, schiacciandola con tutto il proprio peso. Le bloccò le mani sopra la
testa con una sola delle sue, mentre l’altra scendeva a palparle il seno. Lei
scalciò nel tentativo di colpirlo, sperando di riuscire a conficcargli nella
carne i tacchi aguzzi, ma i suoi movimenti servirono solamente a far rimbalzare
lontano i sandali.
“Sei sempre dolce
come ricordo?”. Scese ancora con la mano, incontrando solo pelle nuda, e
sogghignò. “Hai lasciato un pegno d’amore al tuo bello o sei uscita senza?”.
I gemiti e le
contorsioni di Estelle suscitarono altre risate. Benjamin strinse la presa, con
entrambe le mani, e le leccò una guancia. “Ricordavo bene”.
Com’erano dure e
brutali le sue dita a confronto con le carezze di Connor… Pensare a quanto era
stato dolce il vampiro la aiutò a riprendere il controllo. Divincolarsi era inutile,
lui era più forte di lei. Lo sapeva, aveva già vissuto quella scena, con
Benjamin e con molti altri. Allora invocare aiuto era stato inutile e lottare
aveva solo peggiorato le sevizie, adesso, però non erano più prigionieri di
Byron.
“Se mi lasci adesso”,
cercò di controllare la voce, di non far emergere la paura, “non griderò. I
vicini chiameranno la polizia se mi sentiranno urlare. Tu, però, non vuoi
finire in una cella, vero Benjamin?”. La prigione non era un buon posto per i
licantropi, quelli come loro rischiavano di non uscire mai più.
“Che cosa sono un po’
di strilli tra amici?”. Non sembrò preoccuparsi della sua insinuazione, però le
strappò il collo del vestito e glielo ficcò a forza in bocca.
Estelle era
ripiombata nell’incubo. Mani crudeli la toccavano ovunque, fiato fetido le
invadeva le narici, qualcosa di duro e sgradevole si strusciava contro di lei,
un ginocchio la costringeva a divaricare le gambe… Chiuse gli occhi.
No, no, no! L’urlo
silenzioso le aveva invaso tutta la mente, spazzando via ogni altro pensiero.
Era in trappola, nessuno sarebbe venuto a salvarla, il dolore… Presto il dolore
sarebbe ricominciato e si sarebbe portato via tutto quello che sperava di aver
ritrovato.
L’improvvisa assenza
di peso le fece spalancare gli occhi. Benjamin non incombeva più sopra di lei:
pendeva come un sacco informe dalla mano di un giovane lupo, in quel frangente
disperato Estelle non avrebbe potuto ricordare il suo nome nemmeno se costretta.
“Cosa stai facendo?”.
Il ragazzo lo lanciò con violenza in un angolo e gli si avventò contro.
Il volto di Nadia,
rigato di lacrime, entrò nel campo visivo di Estelle. Le tolse la stoffa dalla
bocca e le posò una mano sul braccio, ma lei si scostò e strisciò goffamente
fino alla parete. Nella sua mente, altre mani la stavano ancora toccando, zanne
aguzze la straziavano, l’argento bruciava nel suo petto. C’era odore di sangue,
il suo.
“Estelle? Va tutto
bene, mi senti?”. La voce ansiosa di Nadia non le arrivava al cervello.
Quando anche l’altro
lupo si avvicinò e si chinò per prenderla in braccio, Estelle aprì la bocca per
lasciar uscire il grido che la stava assordando. Urlò e urlò. Non vedeva i suoi
compagni che si affannavano per calmarla, non sentiva le loro voci
rassicuranti, l’odore del branco che le si stringeva addosso la soffocava.
Qualcuno la avvolse in una coperta e tutto divenne buio.
10

L’avevano portata nel
palazzo di Cora.
Respirò a fondo. Si
sentiva già meglio: dopotutto cos’era qualche livido, se il termine di paragone
erano squarci sanguinanti e ossa rotte? Non avrebbe permesso a
quell’aggressione di rispedirla nel pantano dell’insensibilità, non dopo che le
dolci premure di Connor l’avevano ricondotta alla vita.
Socchiuse gli occhi e
si ritrovò a osservare il soggiorno quasi dalla medesima posizione della volta
precedente. Ma non era sola adesso. Sentiva delle voci attorno a sé.
“Quando arriva Kellan?”.
Il tono sommesso di Susan era molto vicino.
“Presto”, la risposta
stanca di Nadia le giunse dall’altro lato della stanza.
“Meno male che la
Signora era fuori città questa sera”. Una pausa di silenzio. “L’avrebbe ucciso
se fosse stata qui”.
“Non la toccare,
ricomincerà a gridare”.
Ridestata da quel
commento, Estelle si raddrizzò di colpo. Era rannicchiata su un angolo del
divano, con Susan seduta ai suoi piedi. Una mano della lupa era sollevata,
bloccata nell’atto di accarezzarla. Sotto il suo sguardo vitreo lei la abbassò
lentamente.
“Non aver paura. Sei
al sicuro qui”.
Estelle sentiva le
sue parole ma non era certa di comprenderne il significato. Sapeva solo che non
voleva essere toccata, da nessuno, soprattutto se odorava di lupo. Un angolino
razionale della sua mente le disse che quello non era un comportamento sensato,
che l’abbraccio del branco l’avrebbe fatta sentire meglio, ma l’urlo che
minacciava di ricominciare a infuriarle nella testa zittì quel pensiero.
Il rumore della porta
che si apriva la fece rannicchiare ancora di più su se stessa. Scappare via
sembrava una buona idea, peccato che le gambe, pesanti come macigni, si
rifiutassero di muoversi. La luce della lampada catturò i riflessi dorati dei
capelli di Connor e lei, ancora prima di aver formulato il pensiero, scoprì
invece di poter correre. Dritta contro il petto duro del vampiro, avvinghiata a
lui con tutta la forza che le era rimasta.
Connor la cinse nel
proprio abbraccio con un riflesso automatico, poi girò la testa a osservare le
altre due mannare in cerca di spiegazioni.
“C’è stato un…
problema, con uno degli altri lupi”, balbettò Susan, stupita dal loro
comportamento.
Gli occhi di Connor
percorsero il corpo seminudo di Estelle, il vestito stracciato che pendeva di
lato, i lividi che le arrossavano le cosce. “Lui dov’è?”. Del ghiaccio che si
spezzava avrebbe avuto un suono meno sinistro.
“Sono faccende del branco,
non ti riguardano”. Nadia si avvicinò, forse intenzionata a riprendersi Estelle,
ma le sue parole la indussero a fermarsi.
La lupa non si
rivolse alle sue compagne di branco, parlò come se loro non fossero nemmeno
nella stanza. “Non lasciarmi”, sussurrò contro il petto del vampiro.
Connor la sollevò tra
le braccia, attento a che il vestito non si sollevasse troppo, e attraversò la
stanza. “Quando arriva Kellan, ditegli che mi occuperò io di lei”, disse, prima
di scomparire nel passaggio che conduceva al sotterraneo sotto lo sguardo
allibito delle due lupe.
“Grazie”, mormorò
Estelle.
Il vampiro se la accostò
ancora di più al petto ma non le rispose. Scese la scala buia, imboccò il primo
dei vari corridoi che si diramavano sotto il palazzo e dopo una decina di metri
aprì una porta sulla sinistra. Estelle sbirciò oltre la spalla massiccia che le
sosteneva la testa: l’aveva portata nella sua camera. Pareti verde pallido, un
armadio di legno scuro, una poltrona blu e un letto sopra il quale erano appese
due spade incrociate. Una bara lucida era chiusa in un angolo.
Così era quello
l’aspetto delle stanze private di un vampiro. Sembrava tutto normale, a parte
la bara ovviamente.
Connor mosse un passo
verso il letto, ma avvertendo la sua improvvisa tensione cambiò direzione e si
avvicinò alla poltrona. La depose delicatamente a sedere e fece per sfilare le
braccia, ma lei gli strinse i polsi. Si guardarono, i volti vicini come poche
ore prima, con sentimenti totalmente diversi negli occhi.
“Non voglio
lasciarti”, sussurrò Connor, “Vado ad aprire l’acqua della doccia”.
Estelle annuì e lasciò
scivolare via le sue mani mentre si alzava. La porta di fronte al letto
evidentemente era quella del bagno. Sentì l’acqua scrosciare e in un attimo lui
fu di nuovo lì accanto.
“Vieni”, le porse una
mano pallida.
Estelle si lasciò
condurre nel bagno, si sentiva stordita, come se tutti i suoi sensi fossero
attutiti. Persino osservare il grigio livido dei propri occhi nello specchio
non le trasmise niente, ma poi vide il modo in cui il vampiro la stava
guardando.
Il bel volto di
Connor era deformato da una smorfia rabbiosa che, invece di spaventarla, la
fece sentire bene, protetta. Con la punta delle dita le accarezzò i graffi che
il bavaglio improvvisato le aveva lasciato attorno alla bocca. Scostò i capelli
per seguire i segni violacei che le solcavano il collo e il petto, dove il
vestito strappato copriva a malapena l’impronta di un morso sul seno destro. Il
vampiro la accarezzò piano con il pollice e quel piccolo movimento bastò a far
crollare definitivamente lo scarso equilibrio rimasto al vestito. La stoffa, il
cui verde aveva esaltato così bene la sua carnagione a inizio serata, abbandonò
il petto di Estelle, lasciando scoperto ciò che lei aveva voluto nascondergli.
Alla vista del cordone
scabro della cicatrice che le solcava lo sterno, Connor si lasciò sfuggire un
gemito e Estelle chinò il capo, sconfitta. Il suo strazio era lì, pronto per
essere ammirato. Connor, però, coprì quel segno frastagliato con la mano e si
piegò per poterla guardare negli occhi. Lacrime rosate gli solcavano la pelle
candida.
“Chi…?”.
Estelle scosse la
testa. “No, questo… non adesso”. Non aveva la forza per spiegarsi.
Connor sospirò e levò
la mano. Le tolse quel che restava del vestito e digrignò i denti quando,
abbassandosi per sfilarglielo dalle gambe, fu all’altezza dei lividi che le
ricoprivano le cosce.
“Lo vuoi morto?”.
Una richiesta
semplice, formulata con un tono piatto che non la trasse in inganno. Il tremito
che stava attraversando le braccia del vampiro trasmetteva tutto quello che lui
stava cercando di nascondere.
“Non mi ha… non ci è
riuscito, l’hanno fermato in tempo”.
“Credi che abbia importanza?”.
In un lampo, Connor fu di nuovo in piedi e la sovrastò con la propria altezza,
ma senza avvicinarsi troppo e diventare opprimente, come se sapesse che facendo
così l’avrebbe turbata, nel precario stato emotivo in cui si trovava. “Il fatto
che gli abbiano impedito di profanarti non lo esime da colpe”.
Profanare, che strano
verbo da usare in una situazione del genere. Estelle sorrise, una smorfia
triste, e gli posò una mano sulla guancia. “Avrei dovuto incontrarti molto
tempo fa”.
Entrambi sapevano
cosa aveva voluto dire. Entrambi sapevano anche che un vampiro poco potente
come Connor non avrebbe potuto contrastare in alcun modo un licantropo
terribile come Byron.
“Ti lascio, così puoi
lavarti”. Come se improvvisamente stare insieme a lei, nuda, in quel bagno
immacolato, fosse troppo.
Estelle lo guardò in
silenzio oltrepassare la soglia, poi prese un respiro per farsi coraggio e lo
chiamò. “Connor”. Subito quegli occhi azzurri e tersi furono su di lei. “Mi
dispiace essere scappata via, io…”. Sorrise, sperando che questa volta fosse un
sorriso luminoso come quello che lui le aveva rivolto qualche giorno prima. “Mi
è piaciuto moltissimo fare l’amore con te”.
Se non fosse stato un
vampiro, avrebbe giurato di averlo fatto arrossire. Connor le si accostò,
adesso con la premura di un amante, e le posò un bacio lieve sulle labbra.
“Anche a me”, sussurrò, poi uscì e chiuse la porta.
11
L’acqua calda terminò
l’opera iniziata da quel bacio, così Estelle uscì dal bagno molto più
rilassata, con un ampio asciugamano legato al petto e uno più piccolo sui
capelli.
Connor la aspettava
seduto sulla poltrona. Il velluto blu incorniciava in modo sublime il volto pallido
e la cascata dorata dei capelli, gli occhi risplendevano come gioielli mentre
si alzava e le andava incontro.
“Hai bisogno di
qualcosa?”.
Scosse la testa.
“Vuoi che ti chiami
qualcuno?”.
“No, grazie”. Erano
domande gentili, volte a metterla a suo agio, ma tutto ciò di cui aveva bisogno
era già nella stanza.
Il vampiro aggottò la
fronte, perplesso. “Credevo che voi mannari trovaste conforto nel contatto con
i vostri simili”.
Annuendo, Estelle gli
passò accanto e salì sul letto, cominciando a strofinarsi la testa per
asciugare i capelli. “Di solito è così, ma so per esperienza che quando chi ti
ha aggredito ha l’odore del branco non è molto confortante essere circondati da
altri lupi”. Sospirò, quasi incredula di riuscire a parlare con qualcuno di
certi argomenti. “Immagino che per voi vampiri sia diverso. Oppure no? Ti
confesso di non avere molta esperienza in materia”.
Connor sedette
accanto a lei e sostituì le proprie mani alle sue, massaggiandole la testa con
lenti gesti circolari. “Dipende dalle caratteristiche che prevalgono nella
nostra linea di sangue”. Parlò piano, vicino al suo orecchio. “Da come ci ha
trattati il nostro Creatore”. Scivolò alle sue spalle e la avvolse
nell’abbraccio congiunto di braccia e gambe. “Da quello che ci ha fatto”.
Il suo tono triste le
diceva che anche per lui il contatto significava conforto, perciò Estelle si
lasciò andare contro il suo petto e gli appoggiò le mani sulle cosce, accarezzando
i muscoli forti che la sostenevano come una poltrona vivente. O meglio non
vivente.
Presto il massaggio
dalla testa si spostò sulle spalle ed Estelle si godette quei gesti gentili
finché dalla gola non le uscì un mugolio sonoro, segno che entrambe le sue
nature gradivano quelle attenzioni.
“Spero non significhi
che stai per mordermi”. La voce di Connor si era abbassata ancora di più.
“Oh, no”. Estelle si
stirò pigramente e con una lenta contorsione si rigirò tra le sue braccia.
“Significa che hai una lupa molto soddisfatta”.
Le zanne del vampiro
balenarono per l’ampiezza del suo sorriso. “Non credo di aver mai avuto una
lupa”.
“Bene”. Scalò la
distanza che li separava. “Potrei diventare gelosa”.
Il bacio nacque dolce
e lento, ma divenne presto un incontro di lingue dardeggianti e labbra fameliche
che s’interruppe quando Estelle lo spinse all’indietro e si sedette sopra di
lui. Non le importava che l’asciugamano le fosse scivolato mollemente intorno
ai fianchi, lui l’aveva già vista. Lui capiva. Gli lisciò i capelli, che si
erano aperti come raggi attorno alla sua testa, poi sorrise.
Connor le accarezzò
una guancia. “Sono felice che ti senta meglio”.
“Sembra che tu
possieda il dono di curarmi”. Si sentiva languida e sensuale, bellissima. Tutte
sensazioni che temeva di aver perso per sempre. Evidentemente si era sbagliata.
Si piegò verso le sue labbra morbide e riprese a baciarlo, ma una nuova
tensione la fermò. “Cosa c’è?”.
Il sorriso di Connor
accendeva una tale gamma di sentimenti sul suo volto che pareva impossibile che
sopra quei lineamenti potesse albergare anche un’impassibile maschera da
vampiro. “Niente mi farebbe più piacere che riprendere da dove la tua fuga ci
ha interrotti, ma l’alba è molto vicina”.
Lo osservò, steso
sotto di lei, pallido e splendente, e si rese conto che un amante vampiro le
era estraneo sotto molteplici punti di vista. “Scusami, non mi ero mai dovuta
preoccupare prima di certi particolari”.
“Non importa, ma non
voglio iniziare ciò che non potrei terminare”, rise, poi si incupì, “Con il
rischio di intrappolarti sotto di me, di farti male”.
Pronunciò quelle
ultime parole come se fossero la peggiore delle bestemmie. Estelle credeva di
aver capito perché prima, nel bagno, lui avesse parlato di profanazione. La
stava guardando con un’adorazione totale, la toccava con gentile riverenza,
come se lei fosse una cosa preziosa da proteggere.
“Cosa c’è?”. Connor
ritrasse la mano e si morse il labbro inferiore. “Ti ho spaventata, scusami”.
Lei si portò le sue
dita alla bocca e le baciò una a una. “Credo che non potresti farmi nulla di
male, mai”.
“No, non potrei”.
“Perciò… dovremmo
dormire?”, chiese Estelle titubante.
“Tu forse, io… io
muoio”, si strinse nelle spalle. “Ti lascio il letto, io starò benissimo anche
nella mia bara”.
Estelle bloccò il suo
accenno di movimento stringendogli le gambe attorno alla vita. “Perché? Questo
letto è abbastanza grande per entrambi”.
Connor sollevò un
sopracciglio. “Al sorgere del sole io morirò e diventerò freddo”.
Fu il turno di
Estelle di alzare le spalle. “Al tramonto, però, tornerai da me, ed io sono abbastanza
calda per entrambi”.
Alzò le mani in segno
di resa. “Mi dichiaro sconfitto”.
“Saggia decisione”.
Gli schioccò un bacio e scivolò giù dal suo petto. “Hai intenzione di dormire con
i jeans?”.
“E tu hai intenzione
di dormire nuda?”.
Il suo tono caldo le
torse qualcosa nello stomaco, o forse più in basso. “Se non hai niente da
prestarmi”.
“Mi dispiace, dovrai
accontentarti di me”.
Decisamente più in
basso.
Estelle si sentì
andare a fuoco e maledì l’alba. Scostò il copriletto blu e si distese tra
candide lenzuola, contemplando quello che poteva definire il suo vampiro
levarsi con posata grazia i vestiti. Quando erano stati insieme, non l’aveva
visto completamente nudo, ma si ripromise di non commettere di nuovo
quell’errore. Connor possedeva un corpo elegante e flessuoso, con muscoli di
rilucente perla plasmati da una lontanissima vita di combattimenti. A meno che
quelle spade non fossero vuoti cimeli. Estelle ne dubitava.
I suoi occhi
brillavano di fuoco azzurro quando si posarono su di lei.
“Che cosa guardi?”,
si schernì lei, imbarazzata dall’intensità di quello sguardo.
“Te”. Scivolò nel
letto accanto a lei e la cinse in un abbraccio. “Non hai idea di quanto tu sia
bella”.
Estelle si girò su un
fianco, come faceva sempre per dormire, e si accoccolò nella culla offerta dal
suo corpo. “Buonanotte, o meglio”, gli baciò una mano e se la posò nuovamente
in grembo, “buona giornata”.
12
Molto tempo dopo,
Estelle fu svegliata da qualcuno che bussava alla porta. Ancora
circondata
dall’abbraccio di Connor, si rizzò a sedere, coprendosi il seno con il
lenzuolo.
“Chi è?”, chiese
senza alzare troppo la voce. Sapeva che era sciocco da parte sua, Connor non si
sarebbe certo svegliato per il rumore.
“Sono Susan, posso
entrare?”.
Quella lupa era una
delle persone più gentili che avesse mai conosciuto, ma non le sembrava giusto
esporre alla vista di un’estranea Connor mentre era morto per il mondo. Forse
però non erano estranei, dopotutto vivevano insieme, appartenevano entrambi a
Cora. In realtà lei sapeva ben poco di com’era la vita quotidiana in quella
casa.
“Non importa”. Susan
interpretò il suo silenzio come un rifiuto. “Ti lascio qui fuori i vestiti.
Quando vuoi, noi siamo di sopra: ho preparato la colazione”.
“Grazie, salgo tra
poco”. Mangiare qualcosa era un’ottima idea.
“Bene”.
Rimasta sola, Estelle
guardò ammirata il vampiro accanto a lei. Non respirava. Gli sfiorò una spalla.
Era freddo e rigido. Eppure nel giro di qualche ora un oscuro potere,
emanazione di una qualche volontà superiore, avrebbe colmato il suo corpo
inerte. Connor avrebbe riaperto quegli splendidi occhi azzurri, avrebbe sorriso
e parlato. Sarebbe stato vivo, bisognoso di sangue altrui ma a suo modo vivo.
Lei era già viva,
però, e aveva fame. Gli accarezzò i capelli e si sfilò dalla sua presa. Dietro
alla porta trovò una borsa con dentro alcuni vestiti che qualcuno doveva aver
preso dal suo armadio.
Fu piacevole
indossare biancheria pulita, una tuta morbida e le sue pantofole preferite.
Quel qualcuno era stato veramente premuroso.
In bagno trovò una
spazzola e la usò per tentare di dare una forma decente alla nuvola vaporosa in
cui si erano trasformati i suoi capelli dopo essersi asciugati senza balsamo.
Avvicinò il viso allo specchio e costatò che i segni erano già spariti.
I ricordi non
l’avrebbero fatto, si sarebbero uniti ad altri molto più sgradevoli, ma quel
giorno Estelle non voleva pensarci. Contava di costruirsi presto dei ricordi
migliori.
Posò un bacio sulla
guancia gelida di Connor e salì al piano superiore. Dove scoprì due cose: dalla
luce esterna dedusse di aver dormito molto più del solito, tanto che non doveva
mancare troppo al tramonto, e ad aspettarla nel soggiorno c’era Kellan, con
un’espressione affranta sul volto.
“Perdonami”, avanzò
verso di lei, incerto se toccarla o no.
“Non è colpa tua, non
potevi prevederlo”. Estelle si chinò e gli prese una mano portandosela alla
bocca, pronta a salutarlo come gli spettava, ma lui la trasse a sé per
abbracciarla.
“Spettava a me
proteggerti e ho fallito”.
Si strinsero in un
lungo abbraccio e, come sempre, Estelle dovette sforzarsi di non rabbrividire,
mentre inspirava l’odore muschiato del lupo che abitava nel corpo massiccio del
suo alfa. Quando l’aveva visto lottare contro Byron, azzannando e straziando la
carne dell’enorme lupo nero come lui aveva fatto innumerevoli volte con lei e
tutti gli altri membri del branco, Estelle aveva sentito nascere dentro di sé
una gratitudine immensa nei confronti di Kellan. Lo rispettava profondamente
per averla liberata dal suo carnefice, lo amava come di rado capitava a un
capobranco. Kellan sapeva punire, se necessario, ma con loro non aveva mai
dovuto farlo.
Non dopo Byron, mai…
fino a ora. Benjamin sarebbe stato punito, probabilmente aveva già sofferto per
averla aggredita.
Estelle si scostò.
“Posso chiederti una cosa?”.
“Quello che vuoi”, la
prese per mano, “Vieni, avrai fame”.
In cucina, Susan li
aspettava davanti a una tavola preparata, più che per una colazione, per il pasto
suggerito dall’ora tarda. Estelle si gettò famelica sul pane appena sfornato e
sulla bistecca, solo quando iniziò a sentirsi sazia, si accorse di essere la
sola a mangiare.
“Scusatemi”. Sorrise,
imbarazzata, ma senza riuscire a smettere.
“Sono felice che ti
piaccia”, le rispose Susan, un’espressione quasi materna sul volto.
“Sei una cuoca
eccezionale”, disse addentando un altro pezzo di pane. Masticò lentamente, in
cerca delle parole giuste per formulare la sua richiesta. “Suppongo”, guardò
Kellan, “che Benjamin…”.
“È stato punito per
quello che ha fatto”, la interruppe l’alfa con tono cupo, “In effetti, il suo
castigo è appena all’inizio, non posso tollerare che ricada nelle vecchie
abitudini”.
Non era sicura se si
riferisse agli stupri o alla droga, forse Kellan neppure sapeva dello stato in
cui si trovava Benjamin la sera precedente. “Non era in sé ieri, credo che
abbia ricominciato a impasticcarsi”. Servivano droghe pesanti per influenzare
il metabolismo accelerato dei licantropi.
“Smetterà anche di
drogarsi”. Le mani di Kellan, appoggiate al bordo del tavolo, si contrassero,
come se ricordassero i gesti compiuti quella notte. “Ma non è una scusante per
il suo comportamento”.
Il calore sferzante
che si sollevava da lui fece rizzare il pelo della sua lupa. “Non puoi
ucciderlo!”, sbottò. Subito si rese conto di non poter dare ordini al proprio
capobranco e si gettò ai suoi piedi, implorando pietà.
Kellan la risollevò e
le accarezzò una guancia. “Non lo farò, ma capirei se tu mi chiedessi la sua
testa”.
Per qualche istante
Estelle si crogiolò nel calore rassicurante di quel tocco. “Abbiamo già
sofferto troppo, tutti noi”. Abbassò gli occhi. “Però non voglio più abitare
insieme a lui, se mi è permesso”.
“Si troverà un’altra
casa”.
“No”. Incrociò di
nuovo lo sguardo addolorato dell’alfa. “Ho deciso che sarò io ad andarmene”.
Kellan fece una
smorfia e poi non riuscì a trattenere un sorriso. “Mi hanno detto che hai
trovato un… amico”.
Estelle arrossì. “Sì,
credo… di sì”. Non aveva pensato di dovergli chiedere il permesso di stare con
Connor, dopo tutto quello che avevano patito, era la prima volta che uno di
loro trovava il coraggio di frequentare qualcuno. Sarebbe stato suo diritto di
capobranco proibirglielo, ma lei non credeva che Kellan avrebbe disapprovato la
sua scelta. Non era uno sconosciuto incontrato per caso, era un vampiro che
apparteneva a Cora, che era anche la loro Signora.
“Sono felice per te,
per entrambi”.
“Grazie”.
Kellan la invitò con
un gesto a sedersi di nuovo. “Adesso vorrei chiederti una cosa, se te la
senti”.
“Certo”.
“Benjamin deve
scusarsi con te”. Lo disse come se quello fosse parte integrante della
punizione.
Estelle si morse le
labbra ma assentì con la testa, poteva farcela. Allora Kellan guardò Susan, che
era rimasta per tutto il tempo appoggiata al bancone della cucina, e lei andò
ad aprire la porta del patio esterno.
Per primo entrò uno
dei lupi di Cora, non quello che l’aveva soccorsa, uno più vecchio, che Estelle
credeva si chiamasse Lachlan, poi Benjamin lo seguì. Indossava ancora i jeans
della sera precedente, adesso scuriti dal sangue colato dai tagli già in via di
guarigione che gli costellavano il petto. Non lo avevano torturato con dei
coltelli, come amava fare il loro antico padrone, la pelle si era spaccata per
la violenza dei colpi subiti. Il suo corpo era una costellazione di lividi
bluastri e, quando alla scrollata che gli diede l’altro lupo alzò la testa,
Estelle poté vedere che naso e zigomi erano sicuramente fratturati.
Ricordò le parole
pronunciate da Susan la notte precedente: se lo avesse colto in flagrante, Cora
lo avrebbe ucciso. Da quel che aveva sentito raccontare dalle altre femmine del
branco non ne dubitò, la vampira non conosceva pietà per chi maltrattava i più
deboli, soprattutto se le appartenevano. Nemmeno Kellan era da meno.
Le si chiuse lo
stomaco. Sapeva che Benjamin si era meritato ciascuna delle percosse,
aggredendo lei e tradendo la fiducia del branco, ma vederlo ridotto in quello
stato la faceva ripiombare nel passato. Dal modo in cui Kellan serrò i denti,
nemmeno lui sembrava fiero della punizione che era stato costretto a infliggere.
Benjamin guardò
fugacemente il loro capobranco, poi si buttò in ginocchio davanti a lei. “Mi
dispiace”.
Aveva la voce roca,
Estelle sapeva che gridare troppo a lungo faceva quell’effetto. La sua voce era
stata così innumerevoli volte…
“Non avrei dovuto”,
continuò Benjamin, leccandosi le labbra spaccate.
Per Estelle fu
troppo, non lo toccò ma si chinò verso di lui. “Lo so. Non l’avresti fatto se
non fossi stato drogato. Io…”, guardò gli altri lupi e scosse la testa, “Io sto
bene, non c’è bisogno di picchiarlo ancora”.
“No”. Kellan si alzò
e il crepitare del suo potere lo fece apparire più alto e imponente di quanto
già non fosse. “Non ce ne sarà bisogno perché Benjamin ha capito come non ci si
deve comportare, a meno che non preferisca essere scacciato dal branco”.
“No”. Benjamin
strisciò ad abbracciargli i piedi, umiliandosi totalmente. “Non mandarmi via,
io ho sbagliato, non succederà ancora”.
“No, non succederà”.
La voce profonda di Connor li colse di sorpresa. Il sole era tramontato mentre
parlavano e lui si era destato.
Doveva essersi
precipitato di sopra, perché indossava solamente i jeans che si era tolto
davanti a lei. Estelle si alzò e gli andò vicino. Lo fece automaticamente,
senza riflettere, perché accanto a lui si sentiva al sicuro.
Connor sorrise e le
baciò la mano con antica galanteria, poi guardò Kellan. “Posso chiarire un
punto?”.
Anche l’alfa
sorrideva. “Prego”.
In un lampo, veloce
come solo una creatura soprannaturale poteva essere, Connor fu davanti a
Benjamin e lo afferrò per la gola. I suoi capelli si gonfiarono per lo
spostamento d’aria quando lo sbatté contro la parete. “Vedi quella dama? Quella
splendida dama?”.
Il lupo roteò gli
occhi verso Estelle e cercò di annuire, dato che la mano del vampiro gli
impediva di parlare.
“Se la tocchi
un’altra volta”, Connor gli si avvicinò fino a sfiorarlo mentre gli sibilava
contro, “io ti ucciderò. Non importa se la mia Signora mi punirà per averlo
fatto. Io ti ucciderò. Hai capito?”.
Benjamin mosse ancora
la testa, ansimando in cerca d’aria.
“Se ti azzardi anche
solo a guardarla”, Connor strinse la presa e lo sollevò da terra, “ti caverò
gli occhi”. Lo sbatté contro il muro così forte che i pensili vibrarono. “Lei è
mia”. Aprì la mano e Benjamin cadde a terra con un tonfo.
“Bene”, commentò
Kellan, “Direi che ci siamo capiti”.
“Sì”, Connor si avvicinò
a Estelle e le tese una mano.
La lupa la prese,
incantata per un istante dal profondo contrasto tra loro, dal modo in cui la
pelle candida del vampiro sembrava riflettere la sua color cioccolato, però,
quando incrociò il suo sguardo, ogni altra cosa perse di significato. La gioia sfolgorava
in quelle gemme azzurre e, non appena lei lo guardò, si trasmise anche al resto
del volto. Estelle si alzò in punta di piedi e si appoggiò al suo petto per
baciarlo. Un dolce incontro di labbra che lasciò senza parole tutti i presenti,
che mai avevano visto l’uno o l’altra comportarsi così, né in pubblico né in
privato.
“Non dovresti
nutrirti?”. Non le importava che anche gli altri potessero udire quel sussurro
sensuale.
Connor le indicò la
porta da cui era salito con un elegante gesto della mano e un mezzo inchino,
Estelle sorrise e si lasciò condurre via.
L'autrice:
L'autrice:

Amelia
R. è lo pseudonimo di un'autrice italiana di
urban fantasy, che ogni tanto si diverte a scrivere racconti con ambientazioni
fantasy più classici.
Molto amata dalle lettrici italiane, in
occasione della rassegna "AMORE FRA LE RIGHE", ha donato al blog Insaziabili
Letture una delle sue prime novelle.
Ti è piaciuto il racconto di Amelia R.?
Lascia qui un tuo commento per farci sapere cosa ne pensi!
Potete trovare qui i racconti di "Amore fra le righe 2013"
Commenta il post per farci sapere la tua opinione!
Spero che il mio piccolo "esperimento" con vampiri e licantropi sia di vostro gradimento...
RispondiEliminaUn bel racconto, con una fascinosa ambientazione. Molto delicato nel trattare il tema della violenza carnale e psicologica.
RispondiEliminaOttima prova. Brava ^_^
connor ed estelle sono dolcissimi!!!! ho adorato ogni singola parola di questo racconto! bravissima! ps. ti chiedo scusa perchè non ho riconosciuto il tuo stile. purtroppo leggo più racconti di autori stranieri che italiani, ma prometto che appena scoprirò il tuo nome correrò a leggere i tuoi libri!!! ;)
RispondiEliminapurtroppo qui non posso svelarmi (non sto facendo la preziosa, giuro), però se mi dici come contattarti su facebook ti manderò tutte le informazioni che vuoi)
Eliminabello e delicato.....come quei fiori che bucano la neve per riuscire a trovare la luce e il calore....come i protagonisti del racconto....Brava, complimenti...e poi? Il resto a quando <3 <3 <3
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