Teresa Siciliano oggi ci parla de "Il gattopardo" di Tomasi di Lampedusa e ci offre un'analisi della società da lui descritta. Non perdetevi questo bell'articolo di storia della letteratura italiana!
Certo Il gattopardo è un romanzo storico un po’ singolare. Scritto da un
aristocratico siciliano di una famiglia sulla via dell’estinzione, pone al
centro della vicenda il 1860 e l’impresa garibaldina sulla base del principio
“cambiare tutto per lasciare tutto come prima”, principio che all’epoca della
pubblicazione fu molto criticato, ma che sostanzialmente rappresenta l’alleanza,
effettivamente avvenuta anche se a prima vista
sorprendente, fra la borghesia piemontese e la classe dirigente siciliana, che d’altra
parte stava cambiando e sostituendo la nobiltà ormai morente con la classe
borghese. Non la borghesia intelligente e lungimirante, auspicata da Manzoni, ma
un’accozzaglia di sciacalli e iene che vanno a prendere il ruolo dei
gattopardi. C’è in Tomasi perfino, si disse, uno spirito razzista: i siciliani sarebbero
un popolo di conquistati, mai capaci di creare qualcosa di nuovo perché convinti
di essere già perfetti. Affermazione un po’ curiosa per un uomo di cultura, se
si tiene presente che dall’Unità in poi la Sicilia aveva prodotto alcune delle
opere letterarie più innovative e importanti della letteratura italiana. Anche
se oggi probabilmente, a livello politico, si potrebbero addurre con buon
fondamento le vicende dell’istituzione regione autonoma.
Del resto non si può dire che il
romanzo sia storico in senso stretto. Non per niente è stato sottolineato che
borghesi ricchi come Sedara non c’erano in Sicilia prima della confisca delle
proprietà ecclesiastiche e che nel 1862 il matrimonio fra Tancredi ed Angelica
non sarebbe stato visto di buon occhio dalla nobiltà palermitana: insomma
l’invito a Palazzo Ponteleone non ci sarebbe stato. E inoltre gli ultimi due
capitoli, che vedono prima la morte del Principe e poi, a distanza di vari
decenni, la perdita d’importanza della famiglia, fanno piuttosto pensare ad un
romanzo decadente o, meglio, esistenzialista.
Allo strepitoso successo dell’opera,
soprattutto in Italia, non poco contribuì il film di Luchino Visconti, girato pochi
anni dopo.
Particolarmente efficace nel film
l’episodio di Chevalley per far comprendere le grandi differenze all’epoca fra
il Piemonte, rivitalizzato e ammodernato da Cavour, e il Regno delle due
Sicilie, economicamente molto più arretrato, tema approfondito dal regista
soprattutto grazie alle immagini.
Invece l’aspetto più propriamente
politico viene sintetizzato nell’involuzione del personaggio di Tancredi, che
da garibaldino è entrato nell’esercito regolare ed è rappresentato poi da
Visconti come un uomo di destra quasi in senso prefascista, conclusione
rafforzata da una delle due scene finali, quella di Sedara e i fidanzati che in
carrozza tornano verso casa dopo il ballo, quando si sente una scarica di
fucileria: si tratta del colonnello Pallavicino che comanda il plotone di
esecuzione per i soldati che hanno disertato per seguire Garibaldi,
particolare, mi pare, assente nel romanzo. E Sedara dice, con pause
significative: “Bell’esercito! Fa sul serio! È proprio quello che ci voleva …
per la Sicilia. Ora … possiamo stare tranquilli”.
In conclusione, davvero bisognava che
tutto cambiasse perché tutto restasse come prima.
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