Titolo: La
città vuota
Autore: Elia P.
Ansaloni
Genere: Giallo
Editore: Delrai
Edizioni
Pagine: 368
Prezzo: 16,50 €
(cartaceo)
Uscita: 30 Gennaio 2019
Modena,
2013. Il cadavere di una ragazza viene ritrovato in piena
estate nei pressi del Parco Amendola, tra lo sconcerto e l’incredulità delle
autorità e dei suoi vecchi compagni di liceo. Giada non aveva nemici, era una
persona ordinaria, dalla vita altrettanto normale. Perciò la notizia passata in
Tv sconvolge Lucrezia, subito contattata dagli amici di sempre per discutere
insieme delle indagini in corso. Alessandro e Sergio, Ander e Matilde sembrano
non essere indifferenti alla vicenda e alle dinamiche che stanno sconvolgendo
la loro quotidianità. Mentre la città, afosa e soffocante d’umidità, non riesce
a capacitarsi dell’accaduto, i ragazzi riflettono sul lontano 2008, su ciò che
successe allora. Che la morte di Giada abbia qualche legame con quella di
Federico, affogato per disgrazia la notte della festa dopo la maturità?
Un
esordio tutto italiano, da una penna ironica, tagliente e squisitamente
letteraria. Elia P. Ansaloni stupisce con le sue
battute argute e potenti, in una storia dove viene scandagliato l’animo umano
nelle sue sfumature, dalla ricerca di sé, del senso della vita e della verità,
all’infima corruzione e distruzione di ogni morale.
Elia
P. Ansaloni è molto bravo.
Riconoscere
il suo talento in prima battuta è una premessa necessaria per dare indicazioni ai
lettori su “La città vuota”, un giallo intelligente, sottile, intenso, destrutturato
e destrutturate. Un vero gioiellino di precisione e ironia. Sì, proprio ironia,
di quella più gradevole, espressa in un gioco
sofisticato tra l’autore e i suoi personaggi, e ancor prima con le
regole del genere, che Elia si diverte a sfidare, tendere, senza mai spezzare
del tutto.
C’è
la città, piccola e asfissiante, c’è l’omicidio, quello che colpisce gli
insospettabili, ci sono i ragazzi, i ragazzi già vecchi di generazione
egocentrica, c’è quel gusto amaro del giallo italiano, che si mischia a un
attendismo esasperato, alle dilatazione di avvenimenti e di sentimenti in una
pressante attesa di un sensazionalismo non sensazionale.
Insomma,
c’è il giallo nella sua codificazione più squisita, ma c’è anche qualcosa di
diverso: la cifra disumanizzante di Ansaloni.
L’autore
non vuole bene ai suoi personaggi, piuttosto sembrano infastidirlo. Tutti, sia buoni
che cattivi, verso i quali non si mostra indulgente, anzi. Non si lascia
tentare dal desiderio di coccolarli, di esaltarne meriti e pregi, più che i
difetti. Li segue, quasi da lontano, lasciando a loro lo spazio di raccontarsi,
di evolvere nelle pagine, dando giusto un’imbeccata qui e lì, qualche
pennellata di un patetismo sentimentale che porti il lettore a fare ciò che lui
non è disposto a fare: affezionarsi.
E
ci si affeziona ai quattro insoliti protagonisti, scelti a caso tra la folla di
personaggi disponibili, e non perché coinvolti direttamente nelle vicende, non
all’inizio, per lo meno. Lucrezia, Matilde, Ander e Sergio sono oggi quattro
giovani universitari prima appartenenti a quella classe di liceo eterogenea in
cui ricchi rampolli, gregari e disadattati hanno convissuto per cinque anni,
quelli indimenticabili e furiosamente dimenticati di un’adolescenza controversa
anche quando non traumatica. E la loro traumatica lo è stata, o almeno lo si
suppone.
La
morte che avvia la trama indiziaria, infatti, è un déjà-vu, il fare i conti con
un nuovo lutto che ne ricorda uno precedente. Non nelle modalità, certo, ma nei
risvolti psicologici mai analizzati del tutto e, alla fine, quasi
deliberatamente ignorati. Perché sì, i fab four, quelli più svegli, quelli
buoni, saranno degli ottimi narratori di una vicenda soffocante, saranno anche
bravi ragazzi, ma condividono la stessa malattia dei cattivi: l’egoismo.
Intoccabili, freddi, non cedono alla commozione, non analizzano le
ripercussioni dei drammi, anzi, di essi si interessano solo del lato estetico,
quello più pruriginoso di una curiosità transitoria che li veda protagonisti e
li scuota da un anonimato che sembra essere la condanna della loro generazione.
Non a caso una brillante studentessa si chiederà con rammarico se il suo
coinvolgimento operativo da consumata hacker nell’indagine possa essere
paragonato all’eroico quanto casuale tentativo di omicidio subito dal suo
compagno di merenda.
Fa
sorridere, un sorriso amaro e al tempo stesso sardonico, forse quello dello
stesso Ansaloni che, lungi dal voler
creare eroi, si prende gioco dei lettori e del suo stesso romanzo, che pur inserito
nella cornice di un giallo classico si è ribellato al manicheismo del genere,
scegliendo di non sostituire quest’ultimo con una profondità e sfaccettatura di
maniera, ma con l’analisi chirurgica e fredda di eventi e personaggi, poco buonista,
poco politically correct, ma assolutamente avvincente.
E
mi piace pensare che lui sappia quanto il gioco gli sia riuscito, quanto sia
stato bravo, oltre che un narratore eccellente e uno scrittore dalla penna
invidiabile; mi piace pensare che come il serio Sergio anche lui legga con
entusiasmo genuino gialli dozzinali da 1.99 €, come il più volte citato “L’occhio
di Astarte”, progettando per tutto il tempo cavillati modi per fare qualcosa di
diverso, qualcosa che compiaccia lui, ma anche il lettore attento. Qualcosa di
unico.
Ne
“La città vuota” è riuscito nel suo intento.
Ora
non mi resta che aspettare il prossimo romanzo perché, se le premesse sono
queste, la mia partita a carte con Elia P. Ansaloni è appena iniziata.
Nessun commento:
Posta un commento