Inizia una nuova settimana e non può mancare un racconto della nostra rassegna Romantic Xmas!
Oggi a tenervi compagnia sarà Natalie, la protagonista di "UN PICCOLO DESIDERIO" dell'acclamatissima e amatissima SARA TESSA!
Riusciranno i protagonisti di questa storia a provocare un uragano di emozioni?
Non resta che scoprirlo!
Buona Lettura!
Chi era l'uomo che avevo nel letto?
Nel buio della mia stanza, aggrappata al
mio cuscino, avvertivo quel corpo caldo e senza identità cingermi stretta tra le braccia. Cosa diavolo era successo la sera prima per essere così in
intimità con qualcuno? Nei pochi ricordi che ciondolavano nella mente, c'erano
solo alcune tessere di un puzzle decisamente confuso, e in nessuno di quei
piccoli pezzi sparsi si rilevava la presenza di un maschio, ma soprattutto in nessunissima
immagine c'era l'esito finale della serata, ovvero, sesso con un sconosciuto.
In quel pasticcio di reminiscenze
all'improvviso un pensiero transitò come un'insegna luminosa davanti ai miei
occhi e pregai con tutta me stessa di aver usato il preservativo. Selezionai
dalla mente il primo pezzo del rompicapo. Dunque, avevo partecipato alla festa
dell'Avvento al Santo Natale presso i magazzini del Macy's Herald Square dove
lavoravo da cinque anni come assistente del direttore commerciale. Un evento
imposto dalla proprietà Guillaime, che obbligava da mezzo secolo tutti i
dipendenti a radunarsi la sera del primo di dicembre per addobbare l'albero di
Natale appendendo ai suoi rami i propri desideri sigillati in piccole buste.
L'usanza a quanto pareva era di buon auspicio per portare ricchi profitti e
miracoli avverati. Ma da due anni a questa parte le speranze erano state
disilluse. Profitti non se ne vedevano e nemmeno desideri avverati. Della
serata ricordavo il brindisi, il discorso del magnate George Guillaime
circondato dai dirigenti e dalla sua famiglia, gli auguri, gli abbracci tra
colleghi, e il mio desiderio appeso a un rametto. Dopodiché la mia fuga per
raggiungere alcuni amici al Lavo, noto nightclub. Rammentavo il momento
in cui mi ero seduta sui divanetti, il primo Martini, il secondo, e poi
un susseguirsi di chupiti di Vodka. In una tessera del puzzle c'era anche un
Manhattan, ma riuscivo solo a mettere a fuoco quel bicchiere colmo e le due
cannucce ma non le mie mani intorno ad esso, e soprattutto non ricordavo di averlo
bevuto. C'erano poi dei piccoli flash di me in mezzo alla pista a ballare e del
momento in cui mi ero rifugiata in bagno per evitare il corteggiamento da
primitivo di uno spavaldo sfigato. In seguito, sul tavolo mnemonico, erano
rimaste solo altre due tessere. La prima riguardava una ragazza incontrata
nella toilette. Era aggrappata al lavabo a piangere. Quei suoi occhi devastati
dal trucco sbavato sulle guance mi avevano fatto tanta di quella tristezza che
per reazione l'avevo abbracciata obbligandola a distogliere lo sguardo dallo
specchio. Faceva male vedersi piangere, faceva un male cane. Il nome della
ragazza non faceva parte di alcuna tessera, ma un sorriso dolce quando era
riuscita a calmarsi, sì. L'altra tessera invece era sbiaditissima e credo
avesse a che fare con quello dietro di me e che mi teneva ancora tra le sue
calde braccia. In quell'immagine sfocata c'erano solo delle labbra stampate
sulle mie.
L'uomo si mosse appena stringendomi più
forte. E di nuovo la domanda del secolo: Chi era l'uomo che avevo nel letto?
Ancora un mistero in quella ricerca faticosa nella memoria. Mi era già capitato
una volta di ritrovarmi a letto con uno sconosciuto e non era stata una bella
esperienza scoprire poi chi fosse. Esistono uomini che possono essere definiti
avvoltoi, lo vedi anche da come si comportano. Sono osservatori, strateghi.
Sono quelli che magari per tutto il tempo sembrano farsi i fatti loro,
almeno all'apparenza, ma in realtà sono attentissimi e sempre a caccia,
in attesa della preda più debole. Come lupi, leoni, appunto, come avvoltoi,
afferrano la vittima predestinata nel momento in cui questa è distratta e nel
nostro caotico mondo di solito tutto questo accadeva quando la fanciulla era
ubriaca e quindi debole di per sé
Chi era l'uomo dietro di me, che senza
ombra di dubbio doveva essere un avvoltoio per essersi scopato una ubriaca, e
nonostante questo particolare aveva un profumo paradisiaco, tra l'altro per
niente nuovo?
Da dietro la porta, Prometeo, il mio
gattone, si fece sentire con il suo miagolio del risveglio, acuto e penetrante.
Dovevano essere le otto del mattino. Non so come facessero, ma i gatti
sembravano avere un orologio incorporato. E il suo era puntuale e preciso,
tanto da spaccare il secondo. Forse dipendeva dal fatto che il tempo per gli
animali era un fattore fisiologico a differenza di noi umani ormai abituati a
tic e tac innaturali. Avevamo bisogno del tempo per ricordarci di sfamarci,
dormire, correre, o non fare nulla. Stivati in appuntamenti, progetti e
scadenze. Imprigionati nell'ossessione del tempo che passa.
Dopo dieci miagolii in crescendo,
Prometeo passò alla fase finale della sua sveglia, ovvero scardinare la porta
con gli artigli affilati. Lo sapeva quel tigrotto bastardo e nero che mi
sarei alzata all'istante e furiosa, ma resistetti il più possibile poiché
sollevarmi da quel materasso significava affrontare l'inevitabile. Lui dietro
di me. L'insistenza di Prometeo purtroppo lo svegliò. Con una mano spostò delicatamente una ciocca dei miei capelli dal mio orecchio quasi volesse farmi
sentire lo stronzetto dietro la porta. Va bene, pensai, affrontiamo il futuro.
Mi scostai e l'uomo immediatamente mi strinse a sé. Accavallando una gamba,
arpionò la mia alla sua bloccandomi. Cristo santo. Ma chi era per essere anche
dolce e vagamente gentile in quei modi?
«Dove vai?», chiese in un sussurro per
poi baciarmi la spalla.
E dove vado, pensai. A buttarmi a mare.
«Devo dare da mangiare al mio gatto»,
dissi sentendomi una vera stupida.
L'uomo allentò l'abbraccio e io scivolai
fuori dal letto. Appena toccai il pavimento calpestai con il piede qualcosa che
così a grandi linee immaginai essere un preservativo. Bene, pensai, un po' di
coscienza in fondo l'aveva avuta. Brava Natalie.
A tastoni afferrai dalla cassettiera una
maglietta e un paio di slip, dopodiché uscii dalla stanza e alla luce del
corridoio incrociai lo sguardo di Prometeo, seduto nella sua posa statuaria ai
miei piedi, che attraverso quei due occhioni inquisitori e diabolici mi diceva:
«Dammi da mangiare svergognata».
Con lui che sgattaiolava tra le mie
gambe, e cercando di non cadere a terra, raggiunsi velocemente la cucina. Il
suo miao imperterrito mi stava
spaccando la testa. Per porre fine al suo lamento riversai nella sua ciotola le
crocchette e rabboccai l'altra ciotola con acqua fresca, poi finalmente potei
respirare. Meditabonda guardai fuori dalla finestra il sole sopra il cielo di
New York. Un inverno così non si era mai visto da che ero al mondo. Cielo
azzurro e un sole abbagliante che rendeva il gelo di quei giorni nullo. Le
previsioni meteo davano neve per l'indomani, ma era quasi assurdo pensarlo
guardando quel soffitto celeste così luminoso e libero da qualsiasi ombra. Avevo l'impressione che l'universo in qualche
modo, per mezzo di quel sole splendente, ci stesse inviando energia, quasi
volesse scaldarci, ripristinarci, ricaricarci, e aiutarci così a contrastare il
succhiare della vita di ogni giorno. Oppure, come forse era più probabile, era
solo l'effetto del buco dell'ozono.
Caricai la macchina del caffè e dal
cellulare controllai i messaggi della sera prima.
L'ultimo era di Mary e mi chiedeva se
fossi arrivata a casa sana e salva. Le avevo risposto alle quattro del mattino
con un pollice alzato.
Le inviai un nuovo messaggio anche se,
considerata l'ora, dubitavo in una sua pronta risposta.
Sai dirmi con chi sono tornata a casa?
Attesi un minuto e compresi che per
risolvere l'arcano ancora sdraiato nel mio letto, e così fare luce nei ricordi,
mi restava solo accedere a face book e cercare in quel moderno archivio della
memoria quello che mancava nel mio cervello. Mary aveva l'ossessione dello
scatto selvaggio. Immortalava tutto, anche i pali della luce. E infatti, non
appena la sua bella faccina allegra apparve sul display, notai subito un nuovo
album tra i primi post del giorno. Paura e delirio al Lavo, questo il titolo.
Rapida sfilai in modo compulsivo le immagini della nottata evitando di mettermi
a fuoco. Appena mi intercettavo passavo alla fotografia successiva. Non era un
bel vedere. Ubriaca, sorriso stampato, occhi stravolti e quell'espressione di
finta felicità catartica tipica di quegli stati. Un falso sorriso che era solo disperazione alcolica. Dopo quaranta foto mi fermai su una in
particolare... e lì, con il cellulare tra le mani, potei solo chiudere gli
occhi. Oddio, no, oddio, no. Oddio. No. Alzai lo sguardo alla finestra per non
guardare quella realtà immortalata e appiccicata nella bacheca della storia
dell'universo con i suoi cinquanta “I like it”. Ora capivo perché quel profumo
non mi fosse nuovo. Possibile? Ma davvero? Riaccesi il cellulare e guardai
nuovamente quella foto che immortalava il mio direttore commerciale schiacciato
contro un muro da una me irrimediabilmente sbronza e le mie braccia aggrappate
al suo collo.
«Buongiorno», disse Brandon Guillaime
sulla soglia della cucina. Questo ovviamente era il suo nome. Il quale ora non
era più nel mio letto, ma stava alle mie spalle e non dietro la scrivania come
tutti i santi giorni feriali da ormai cinque anni a questa parte.
Il display si annerì e io mi voltai.
Quasi non lo riconoscevo vestito solo da un paio di boxer neri. Lui, sempre
impeccabile, con i suoi abiti firmati, profumati, senza mai una grinza.
Imbarazzata e senza sapere davvero cosa dire, riabbassai gli occhi. Era quanto
di meglio riuscivo a fare. Vederlo in una divisa umana che non fosse il solito
completo incravattato a cui ero abituata era troppo forte per i postumi che
provavo. La testa adesso pulsava da morire e mi stava salendo anche la nausea.
Non so bene se per la quantità industriale di drink bevuti fino a qualche ora
prima o semplicemente per la situazione assurda. A questo punto direi tutte
due. L'insieme era un miscuglio letale e devastante.
E quindi? Ora che si era svelata
l'identità dell'uomo, la domanda che capeggiava sopra di me ovviamente era solo
una: Come era potuto accadere che ci fossi finita insieme, proprio io? Come era
potuto accadere che mi fossi fatta il mio direttore commerciale? Lo stronzo
numero uno, il Re dei narcisi? Io, Natalie, ordinaria, precisa, accomodante
assistente alla direzione commerciale di uno dei più noti magazzini di New
York. Cristo santo, non potevo essere stata tanto ubriaca da non rendermene
conto.
«Non so cosa dire», mormorai guardando a
terra per reggere quella vergogna profonda e viscerale.
«Direi buongiorno», disse lui
avvicinandosi.
Per evitare qualsiasi contatto mi
raddrizzai e tirai fuori la Natalie assistente.
«Caffè?», chiesi cortesemente come di
consuetudine, anche se era assurdo: io ero lì, davanti a lui, in un paio di
slip e una maglietta sgualcita.
Mr Guillaime mi sorrise e io lo odiai
profondamente. Quel suo sorriso, lo detestavo. Sicuramente in quella testa di
cazzo che si trovava stava appuntando una nuova bandierina sull'organigramma
aziendale. In veste di direttore commerciale, nonché figlio del proprietario
dei magazzini del Macy's Herald Square,
nonché rampollo della società bene di New York, si era passato per le mani
almeno l'ottanta per cento delle dipendenti, cosa che avevo scoperto essere una
legge universale negli ambienti della grande distribuzione. Un porto di mare
per fottersi a vicenda. Solo un venti percento era rimasto illeso dalle sue
attenzioni ed era costituito per lo più da donne che non rientravano nel suo
target. Ovvero “over-trenta”. Sì, perché per quello stronzo davanti a me le
over erano “noccioli nucleari”, così le aveva definite una volta in mia
presenza. Diceva che superata la soglia dei trenta scattava in loro un tic tac
biologico. Una scadenza sempre più impellente nella testa delle over, ovvero
procreare e dare un senso alla vita, il che secondo la sua teoria maschilista
le portava inesorabilmente a diventare delle manipolatrici, false e presunte
stalker. Teorie di uno stronzo qualunquista. Per fortuna anche io facevo parte
di quella esigua percentuale, ma non per l'età, piuttosto per essere riuscita a
farmi valere nel mio lavoro rendendo qualsiasi attenzione inopportuna. Ero
sempre puntuale, diligente, precisa, organizzata, e sempre un passo avanti
rispetto a lui che era più concentrato a guardasi attorno piuttosto che a
fronteggiare la crisi del commercio. Ma la verità era un'altra. Ero scampata
alla sua attenzione prevalentemente per i miei chili di troppo, i cinque gradi
di miopia, i capelli ingovernabili e forse una statura media che anche mettendo
i tacchi mi facevano risultare sempre per quello che ero. Una nana bagonza. Ma
questo era stato fino a tre anni prima. Lavorare per lui aveva avuto come
effetto collaterale rivoluzionare la mia vita in tutti i sensi. Solo la statura
era rimasta la medesima, il resto se ne era andato con lo stress da lavoro,
un'operazione correttiva in un ottimo centro oculistico e una periodica
lisciatura chimica ai capelli mi avevano reso la perfetta assistente. Ero
diventata brava in quella recita, sempre impeccabile, io quel lavoro di merda
lo svolgevo alla grande ma solo perché mi permetteva di perseguire il mio
grande sogno, diventare una designer di gioielli. Frequentavo i corsi serali
alla scuola d'arte visiva di New York e mancava ancora un semestre per
concludere gli studi e poi finalmente dedicarmi a quello che veramente volevo
fare nella vita. Quel lavoro mi era servito e mi serviva ancora per realizzare
il mio progetto. Per anni avevo minuziosamente messo da parte ogni dollaro per
crearmi un fondo di sicurezza abbastanza consistente da permettermi due anni di
sopravvivenza una volta terminati gli studi. Ancora sei mesi. Esame, dimissioni
e vita. E questo scivolone non doveva mettermi i bastoni tra le ruote.
«Amaro, se possibile», disse ancora con
quel sorriso, ma stranamente gentile.
Corrugai la fronte incerta. Lo sapevo
benissimo come voleva il suo cazzo di caffè. Gliene versai in una tazza e
gliela porsi.
«Mi spiace, non ho molto in casa, di
solito faccio colazione per strada». Già, proprio così, perché ogni mattina
dovevo portargli il suo caffè amaro acquistato al Stumptown Coffee Roasters e farglielo trovare sulla
sua scrivania alle nove in punto.
«Va bene così», disse lui.
Si sedette al tavolo della cucina e io
restai appoggiata al lavello a sorseggiare il mio. Poi mi resi conto di essere
in mutande e allora me ne andai in camera a recuperare un paio di pantaloni che
infilai al volo. Scostai le tende e spalancai la finestra affinché l'aria
purificasse l'ambiente. Non appena se ne fosse andato, avrei gettato quelle
lenzuola. Nemmeno una sterilizzazione avrebbe potuto eliminare la macchia nella
mia anima. Meglio buttarle e non vederle più.
Da terra raccolsi il preservativo che, una
volta avvolto in un fazzoletto, buttai nel cestino del bagno. E poi davanti allo
specchio potei finalmente guardarmi negli occhi.
«Ma che cazzo hai combinato, Natalie,
Natalie, Natalie, Natalie, Natalie».
E quel mantrico Natalie andò avanti per
un paio di minuti finché dopo aver inspirato due o tre volte decisi di
affrontare la faccenda. Dovevo fare appello alla Natalie pragmatica dentro di
me.
Cosa era importante nel mio mondo? La
risposta era ovvia: il lavoro che facevo, lo stipendio che percepivo puntale,
pagare la retta alla scuola, insomma, il mio futuro. Perseguire il mio sogno.
Pertanto adesso dovevo tornare da lui, guardandolo dritto negli occhi e dirgli
senza mezzi termini: «Mr Guillaime, non so cosa sia accaduto stanotte, ma credo
che mantenere un atteggiamento professionale sia di interesse per entrambi.
Ritengo questa scelta la più pratica per potere continuare a lavorare insieme
con criterio come da cinque anni a questa parte e secondo gli obiettivi della
nostra azienda».
Inspirai e ok.
Prima del discorso però era necessario
ricomporsi. Mi stavo lavando i denti per avere una bocca meno impastata quando
Guillaime si palesò davanti all'ingresso del bagno. Mi sciacquai la bocca velocemente
e, rialzatami, affrontai il momento.
«Natalie...», disse lui.
«Sì», risposi e via, «Mr Guillaime,
vorrei precisare che...».
Lui mi sorrise, con la mano mi sfiorò una
spalla e io arrestai la filippica. Dopodiché mi trovai con le spalle alle
piastrelle gelide e le sue labbra sulle mie per dei baci leggeri. «Sembri nervosa»,
disse seducente cingendomi la vita.
Sgusciai via dal suo abbraccio.
«Senta, Mr Guillaime, raramente mi capita
di tornare a casa con un uomo e sinceramente non so cosa sia successo ieri
sera, cioè, ho un vago ricordo e comunque direi che potremmo cercare di
dimenticare tutto e proseguire il nostro lavoro come se nulla fosse mai
successo. Tengo molto all’impiego presso il Macy's Square Trade e soprattutto
alla posizione che ho raggiunto in questi anni, quindi non vedo il motivo di
proseguire oltre. Sono sicura che sarà d'accordo con me, considerando che se
dovesse venirne a conoscenza suo padre mi aspetta il licenziamento, come è già
successo alla sue precedenti assistenti. Nel contratto, se ricorda, c'è proprio
una condizione specifica in merito alle relazioni extra lavorative. Insomma,
spero che quanto accaduto stanotte non comprometta il lavoro a cui tengo molto.
Sono certa che il mio operato per lei valga più di qualche ora di incoscienza».
Ecco, in un fiume in piena dissi tutto.
Naturalmente feci il discorso fissando con lo sguardo l'unico punto del suo
viso che per me era territorio neutro e mi aiutava a non farmi agganciare da un
magnetismo che gli apparteneva per natura. Quella micro porzione di pelle tra
le sue sopracciglia era una zona perfetta per concentrare lo sguardo senza
sembrare una pazza.
Dopo qualche secondo di silenzio lui fece
un passo indietro e osservai le sue spalle cedere di qualche millimetro. Quasi
fosse spiazzato. Non so bene. Era la prima volta che lo vedevo a spalle nude,
ma era la sua espressione a essere una novità per me. Non lo avevo mai visto
così... come dire... deluso? Mi grattai la testa confusa.
«Sai chi sono?», chiese.
«Direi di sì», risposi interdetta. Non mi
aspettavo una domanda del genere...
«Conosci mio padre?», domandò ancora,
«Lavori al Macy's Herald Square?».
Uno di fronte all'altra ci guardammo
circospetti. Prometeo apparve ai nostri piedi e un miagolio attirò la nostra
attenzione verso di lui. Che razza di domande mi stava facendo? Riflettei e poi
feci uno più uno e intuii il suo gioco. Mi stava prendendo in giro. Certo,
tipico di lui. Era un modo per sdrammatizzare.
«Bene, mi pare di capire che è come se
non fosse successo nulla».
Lui però non sembrò cambiare espressione
che da delusa nel frattempo era diventata basita, poi all'improvviso iniziò a
ridere.
«Quindi tu...», borbottò, «quindi tu
lavori per mio padre?»
«Sta scherzando, vero?», mormorai.
«E cosa fai di preciso?».
«Come cosa faccio? Perché continua a
prendermi in giro?», chiesi adesso decisamente scocciata.
«Scusami, scusami, ma credo ci sia un
equivoco», disse. Poi si mise una mano davanti alle labbra per mascherare la
risata.
«Non capisco cosa ci sia da ridere».
«Scusami, ma è davvero una strana
coincidenza. Tu chi credi io sia?».
«Brandon Guillaime», risposi senza
incertezze.
Lui annuì. «Certo, certo. Davvero buffo,
e chi ci potrebbe credere? Scusami ma Brandon è mio fratello. Io sono Jason, il
gemello, o meglio la pecora nera della famiglia».
Questa volta fui io ad abbassare le
spalle. Disorientata e incredula.
Sapevo dell'esistenza di un fratello
gemello, peraltro mai visto se non in qualche foto sparsa per l'azienda. E
dalle poche informazioni trapelate in azienda, sapevo che viveva nella sperduta
Alaska a salvare orsi polari. Prima di scappare da New York aveva ricoperto la
carica che ora seguiva Brandon. Su di lui si narrava la leggenda che durante
una riunione avesse distrutto un tavolo in cristallo con un pugno per poi
sparire per anni. Da allora aveva viaggiato di continuo, ovviamente spesato
dalla famiglia che per quella crisi d'identità aveva costituito una fondazione
ad personam.
«Ironico?», chiese beffardo.
«Siete identici», dissi scrutandolo
meglio. Poi però riconobbi in lui un'espressione nota, tipica di Brandon. La
chiamavo «la faccia da culo». La usava sempre con i clienti. Era un esperto in
questo. Aveva l'abilità di far credere loro che stessero decidendo, quando in
realtà aveva pianificato tutto fin dalla prima parola pronunciata.
Senza ombra di dubbio, quella faccia da
culo mi stava dicendo che mi stava prendendo in giro.
«Non sei convinta?», chiese come se
avesse capito i miei pensieri. «Se vuoi chiamo Brandon, anzi ti faccio vedere
un documento d'identità».
In silenzio e dubbiosa restai sulle mie.
«Va bene, ti faccio vedere un documento»,
disse uscendo dal bagno. A piccoli passi lo seguii in camera, dove un po'
ovunque erano sparsi i nostri abiti.
Jason, o chiunque fosse, estrasse dalla
giacca un portafogli e mi pose sotto il naso la sua patente di guida.
Tenevo quel documento tra le mani gelide
fissando quel nome stampato. Jason Guillaime. Mi morsi le labbra e piegai la
testa di lato senza alzare lo sguardo. Riuscii a bisbigliare uno “scusa”,
udibile forse solo a Dio.
«È stato bello stanotte», disse, «e sono
stato proprio bene».
Chiusi gli occhi e respirai. Io non mi
ricordavo un bel niente.
Scossi la testa imbarazzata. «Ho vaghi
ricordi, scusami, davvero, non so come sia potuto accadere».
«Eri su di giri, ma lo ero anche io».
«Già, immagino», mormorai.
Prometeo nel frattempo si era seduto
sulla cassettiera a guardarci vigile e sornione.
«Sei identico a lui, fai impressione e
non so come sia potuto accadere. Ma almeno ci siamo presentati? Cioè tu mi
avevi detto chi eri?».
Lui scosse la testa. «Non proprio, non ho
avuto il tempo, mi sei saltata addosso».
Poi la mia attenzione cadde sulla camicia
abbandonata a terra dove potevo leggere le iniziali “BG” ricamate.
«Portate gli stessi vestiti?», chiesi
indicando la camicia. Nonostante la prova del documento, e tutto sommato anche
quei modi di fare gentili, non ero per niente convinta. Insomma era una
situazione assurda e Brandon era uno stronzo colossale.
Lui scrutò la camicia ai suoi piedi con
stampate quelle iniziali.
«Vivo in Alaska e porto solo maglioni in
pile, scarponi da montagna e pantaloni termici. Quando soggiorno a New York,
Brandon mi presta i suoi vestiti, lo facevamo fin da ragazzi. Tra gemelli è
consuetudine».
Io annuii, poi forse colse il mio
imbarazzo.
«Se vuoi me ne vado, capisco la
situazione però, sono sincero, non vorrei che questo incontro finisse così,
insomma, anche se non ricordi nulla io invece ho la memoria intatta e magari
adesso che sei un po' più sveglia possiamo presentarci meglio».
Sorrisi appena.
«Scendiamo a fare colazione», raccolse la
camicia per indossarla velocemente. «Dai, quattro chiacchiere dietro ad un
tavolino, zona neutra. Prometto che non dirò nulla alla mia famiglia. E poi
resto qui fino alle feste di Natale e dopo al massimo svelerò questo segreto a
qualche orso. Andiamo, Natalie, mi piacerebbe parlare con un essere umano che non
sia un orso o qualcuno della mia famiglia».
Scoppiai a ridere. «Non lo so, credo non
sia il caso».
«Dai, Natalie, ricominciamo. Mi presento.
Ciao, io sono Jason», disse porgendomi la mano.
Davanti a quel sorriso che, per quanto
simile a quello del fratello, con quei due occhi a fissarmi assumeva un
significato del tutto diverso.
«Piacere, io sono Natalie»
«Perfetto, allora, posso offrirti la
colazione?»
«Ok, va bene, ci sto», risposi
stringendomi nelle spalle. Aveva un modo di fare davvero accomodante e cortese.
Seduti in un piccolo bar davanti a caffè e ciambelle, mi raccontò dell'Alaska e della sua vita da vagabondo e
volle sapere tutto di me. Non gli interessava sapere del lavoro presso
l'azienda della sua famiglia. Le domande erano rivolte alla mia persona. Ai tempi della scuola, ai miei passatempi e tante altre cose. Dopo quella colazione
restammo d'accordo di rivederci. E accettai. Così, in men che non si dica, mi
trovai a vivere tra due gemelli. La mattina mi svegliavo con Jason identico a
Brandon nel mio letto e dopo un'ora rivedevo quella stessa faccia dietro a una
scrivania. Quest'ultimo, a volte mi trovavo a fissarlo con curiosità. Mi
chiedevo come fosse possibile che due fratelli gemelli fossero tanto diversi
nell'anima. Due opposti. Il buono e il cattivo
Intanto si avvicinavano gli ultimi giorni
prima del Natale ed erano i più stressanti. La storia con Jason stava volgendo
alla fine. Nonostante l'accordo implicito tra noi, era inevitabile che in me
qualcosa stesse nascendo. Aver riassaporato la compagnia di un uomo aveva in
qualche modo risvegliato il mio cuore malandato.
Intanto, in azienda la fibrillazione di
fine anno si faceva sentire. Il bilancio era in dirittura d'arrivo e le
prospettive non sembravano essere le migliori. Per la terza volta da che
esisteva su questo pianeta il Macy's Herald Square, il rendiconto avrebbe
chiuso con un passivo dell'otto per cento e questo avrebbe comportato di sicuro
un piano di ristrutturazione. La cosa, però, non mi interessava minimamente.
Poco più di cinque mesi e me ne sarei andata
«Natalie, ho bisogno di parlarti», disse
Brandon all'interfono quel venerdì pomeriggio. Alzai gli occhi dal computer e
guardai la sua porta chiusa.
«Arrivo subito», risposi.
Presi il taccuino, blackberry e affilai
la matita. Come da prassi, prima di entrare nel suo ufficio bussai tre volte.
Appena entrai, trovai Brandon accanto al
divano anziché seduto nella sua poltrona in pelle. Mi fece cenno di
raggiungerlo e così feci.
«Prego, accomodati», disse.
Mi sedetti in un angolo, con le spalle
ben dritte e le gambe accavallate, e attesi i comandi con matita alla mano.
Brandon si sedette più o meno a mezzo
metro da me. Fece un sospiro e incominciò il suo discorso.
«Natalie, ormai sono cinque anni che
lavoriamo insieme e mi pare che la nostra collaborazione proceda bene, tutto
sommato... Il rispetto reciproco è sempre stato il nostro punto di forza»,
disse in tono pacato
Ma va' a quel paese, imbecille, pensai.
«Come sai, quest'anno chiuderemo nuovamente
in passivo e saremo costretti a una ristrutturazione. Ne sono
dispiaciuto. Saremo costretti a chiudere
alcuni reparti che oggettivamente non funzionano più. Il mercato in questi anni
è cambiato, le vendite online aumentano e noi dobbiamo per forza stare al passo
e rinnovarci. Dobbiamo ampliare il settore della tecnologia che traina il
commercio e soprattutto specializzarci in altri settori di nicchia».
Annuii. Era vero. Di questo ne avevo
parlato anche con Jason. A nessuno interessava comprare anticaglia da anziani e
per niente in linea con i tempi. Entrare al Macy's Herald Square era un tuffo
nel passato, a partire dall'arredamento secolare, che da un punto di vista
poteva essere anche un valore aggiunto, ma per chi? Per nostalgici in punto di morte
con le braccine corte?
«Sono felice che tu sia d'accordo.
Comunque, in questi giorni ho studiato un piano di ristrutturazione e vorrei
sottoportelo per avere una tua opinione».
Non dissi nulla e acconsentii, impassibile.
Era la prima volta che chiedeva un mio parere, come del resto era anche la
prima volta che sedevo su quel divano.
Brandon si alzò in piedi e dalla
scrivania recuperò un fascicolo. Aveva almeno cento pagine ed era completamente
rilegato da non so chi, dato che ero io a occuparmi di quel servizio
«Ti prego di leggerlo e dirmi cosa ne
pensi».
«Per quando vuole il mio parere?», chiesi
stringendo tra le mani quel portentoso fascicolo.
«Al più presto, prima della chiusura
natalizia, voglio presentarlo a mio padre prima di Natale. Deve capire che il
mercato si è fatto troppo competitivo e lui ha una visione così... così...
opulenta».
Mi guardò dritto negli occhi e io
distolsi lo sguardo per cercare quel lembo di pelle tra le sue sopracciglia.
Opulenta aveva detto? La stessa parola
che aveva usato Jason qualche notte prima per descrivere la direzione
aziendale. Il sospetto che quei due avessero parlato era piuttosto evidente,
chi mai usava la parola “opulente” nel ventunesimo secolo? Ma non gli diedi
peso
«Va bene, lo studierò e le farò sapere. È
tutto?», chiesi alzandomi.
«Sì, è tutto».
«La riunione delle tre con i capi settore si terrà nella sala riunioni verde», dissi e poi mi avviai verso l'uscita.
«Perfetto, grazie Bijou».
Mi arrestai davanti alla porta e lo
guardai ancora fermo accanto al divano, concentrato sul cellulare, e poi
abbassai lo sguardo al fascicolo tra le mie mani.
Un bip
al mio cellulare mi avvertì dell'arrivo di un messaggio. Potevo leggere
l'intera missiva dalla notifica apparsa sul display.
Non vedo l'ora di vederti, piccola Bijou.
Jason
«Bijou?», chiesi guardandolo sorridere al
suo cellulare, sornione come il mio Prometeo.
Al suono della mia voce Brandon divenne
improvvisamente cereo e sembrò quasi che qualche mago gli avesse appena
scagliato addosso un incantesimo. Era pietrificato per quanto non si muoveva.
Lo vidi socchiudere gli occhi un istante e poi appoggiare il cellulare alla
scrivania. Arreso davanti all'evidenza.
E a me era bastato quella sua espressione
per avere davanti all'improvviso la realtà
«Natalie, fammi spiegare», disse
liberatosi dall'incantamento appena lanciatogli. «Volevo dirtelo, ma....».
Stringendo i denti, resistetti al
desiderio di mandarlo al diavolo. Accartocciai il suo fascicolo tra le mani per
scaricare una tensione che stava per farmi partire a razzo.
Brandon mi raggiunse e, appoggiate le mani
sulle mie spalle, si piegò sul mio viso affinché lo guardassi negli occhi. Indietreggiai
di due passi. Gli sbattei sulla testa il suo fottuto fascicolo con tutta la
forza che avevo e poi mi spinsi verso l'uscita per andarmene via.
Lui mi precedette e si parò davanti alla
porta.
«Natalie lascia che ti spieghi», disse
ancora cercando di mettermi le mani sulle spalle.
Con tutta la forza che avevo, gli piantai
un tacco appuntito dritto nel suo piede, volevo oltrepassare la pelle delle sue
scarpe da centinaia di dollari.
Trattenne un urlo, mostrandomi una
smorfia di dolore che era tutto un programma. Ma non ero soddisfatta e pertanto
gli sbattei su quella testa di cazzo almeno cinque volte la sua bella proposta
che a questo punto era la mia, sottratta in notti di sesso rovente.
«È capitato», disse senza spostarsi di un
centimetro dalla porta. «Natalie, è capitato, sono stato uno stronzo, lo so, ma
questo all'inizio. Quando ti ho visto nel tuo bagno in preda al panico, non ce
l'ho fatta e ho preso l'identità di mio fratello per uscire da quella
situazione, ma...».
«Non voglio sentire nienteee», dissi
urlando, «non voglio ascoltare alcuna parola. Fammi uscire. Voglio andarmene».
«Natalie, è tutto diverso ora, non mi
aspettavo tutto questo».
«Questo cosa? Per tutti questi anni ho
sempre cercato di essere professionale, diligente, credevo avessimo
implicitamente fatto un accordo di collaborazione e quella mattina potevi anche
dirmelo. Non ci sarebbe stato alcun problema a chiudere la faccenda come
un'avventura di una notte, ma perché prendermi in giro così? Non avevo alcun
dubbio che tu fossi un povero stronzo, ma questo è davvero assurdo. Che
problemi hai?».
«Natalie, cosa devo dirti?», mormorò con
la testa bassa.
«Fammi uscire».
«Per favore, sono ancora io, quello di
stamattina, quello a cui hai portato la colazione a letto. Natalie, davvero,
non cambia nulla...».
«Sei solo uno stronzo», sentenziai.
Lui annuì. «Vero, ma questo prima».
«Ma perché?», chiesi disorientata davanti
a quell'espressione che non era di Brandon ma di Jason. Insomma, di un essere
umano che mi scombussolava. «Perché sei andato avanti con questa farsa?».
«Non lo so», disse affranto. «Natalie,
non lo so, o meglio lo so, ma era difficile chiudere. Ogni minuto trascorso con
te incasinava tutto».
«E poi cosa diavolo ci facevi al Lavo? Non mi sembra un locale adatto a
un rampollo sfigato quale sei».
«Ti ho seguita», mormorò, poi mi sorrise
e poi si rattristò subito dopo. «Non lo so, Natalie, sono confuso anche io»,
poi cercò in me uno conforto con quei due occhi che avevo sempre evitato, che
poi avevo guardato fino in fondo in notti quasi insonni e ora mi mandavano in
tilt.
«Sei così cambiata, guardati», disse,
«non sei più quella che mio padre ha assunto per evitare che cadessi in
tentazione, in questi anni ti ho visto trasformarti e così è aumentata anche la
mia curiosità. Desideravo conoscerti, ma tu sei così... impenetrabile». Cercò
di allontanarmi dalla porta ma io resistetti e lui non insistette molto.
«Lo vedevo che venivi qui solo per
eseguire il lavoro, sempre impeccabile, un robot. Parlavi poco, ti relazionavi
il giusto e alle cinque te ne andavi. E io mi chiedevo dove andassi, cosa
facessi quando non eri dietro la scrivania, e poi in tutti questi anni non mi
hai mai rivolto un sorriso. Ma te l'ho visto fare la sera della cerimonia
dell'avvento. Stavi scrivendo il tuo desiderio e hai sorriso. E Natalie, ero
curioso...», dalla giacca tirò fuori la piccola busta rossa in cui avevo
sigillato il mio desiderio, «così ti ho seguito».
«Hai letto il mio desiderio?», chiesi
senza fiato, fissando il lembo della busta aperta.
Lui annuì e io mi voltai per dargli le
spalle e proteggermi dalla debolezza in cui ero caduta. Aveva violato una
piccola intimità.
Era un piccolo desiderio quello racchiuso
nella busta. Scritto più per scherzo che per altro. Ormai ero così disillusa da
non crederci più in quella cosa. Sì, insomma, chiamiamola così la faccenda che
sembra orientare tutto il mondo e, nel mio personale caso, non aveva niente a
che fare con il progetto di fantomatica designer di bijoux. In fondo quello era
un sogno in dirittura d'arrivo ed era il risultato della mia mente, mentre per
quell'altro era necessario davvero un miracolo, che l'universo ci mettesse lo
zampino per farmi trovare un uomo da amare. Le mie storie fino ad allora erano
sempre state dei fallimenti, per questo avevo dedicato tutta me stessa ad altro.
Ma ora, con l'avvicinarsi della realizzazione, quel buco nel cuore si era fatto
risentire.
«Natalie...», mormorò alle mie spalle. La
sua mano mi sfiorò un braccio affinché mi voltassi.
«Ovviamente non sei tu la risposta a quel
desiderio», dissi.
«Nemmeno Jason?», chiese prendendomi la
mano.
Scossi la testa con un groppo in gola.
«Natalie...», mormorò, «Non cambia nulla
e vale anche per me il sentimento che provi. Vorrei essere io quell'uomo».
«Mi hai mentito», bofonchiai afona.
«Lo so».
«E come pensavi di rimediare? Quando me
lo avresti detto?».
«Con questo», disse. Mi voltai e lo vidi
estrarre dalla tasca interna della giacca una piccola scatoletta origami fatta
in cartoncino color rosso. Mi morsi le labbra per non sorridere, ma era quasi
impossibile. Avevo passato una sera intera a insegnargli a fare scatolette di
tutte le forme e colori.
«Aprilo», disse porgendomelo.
Sfilai il nastro argentato e osservai i
dettagli di quell'involucro. Era stato bravo, davvero bravo.
«È tuo», disse una volta che il contenuto
si svelò ai miei occhi.
Era un piccolo anello in oro bianco con
il simbolo dell’infinito. Era stato il primo modello da me disegnato quando ero
ancora una studentessa al college.
«Pensavo fosse di buon auspicio e magari
una risposta al tuo desiderio».
Chiusi gli occhi e sorrisi.
Chi era l'uomo che ora era davanti a me?
Chi era? In rapida successione tutte le tessere di un puzzle si ricomposero
nella mia mente, dal nostro primo giorno di lavoro a oggi.
Gli porsi la scatoletta e lui prese
l'anello per infilarmelo al dito.
«Piacere, sono Brandon», disse ridendo.
«Lieta, Natalie», risposi stringendo la
sua mano e avvicinandomi a lui per un abbraccio nel quale scivolai dentro.
Brandon sospirò profondamente e piegandosi sul mio collo mi diede un bacio e mi
sussurrò: «Che dici, posso offrirti la colazione?».
«Volentieri», risposi.
E così, mano nella mano, attraversammo i
corridoi dell'impero Guillaime per ricominciare tutto daccapo.
L’autrice:
SARA
TESSA è nata a Milano, dove vive tuttora. Ha passato la sua vita in attesa che
qualcosa accadesse poi, improvvisamente, un uragano si è abbattuto su di lei:
L’uragano di un batter d’ali (qui la nostra recensione), suo romanzo d’esordio inizialmente
autopubblicato, è uscito con la Newton Compton all’inizio del 2014 ed è volato
ai primi posti delle classifiche dei libri più venduti. Altrettanto bene è
stato accolto Il silenzio di un batter d’ali (qui la nostra recensione). Entrambi saranno a breve tradotti
in Spagna. Ha una filosofia di vita che cerca di seguire ogni giorno: «Se
smetti di sognare, allora stai dormendo». Nel 2014 ha pubblicato la novella
Tutti i brividi di un batter d’ali, solo in versione digitale, e, nel 2015, Se
fossi qui con me questa sera (qui la nostra recensione), a cui è seguito Un'ora un giorno un anno senza te.
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Romanticissimo! Brava, Sara, un dolce colpo al cuore.
RispondiEliminaBrava,Sara.....Bellissimo :)
RispondiEliminaGrazie del regalo....una bella novella!!
RispondiEliminaBravissima Sara....come sempre, ogni tuo racconto è un emozione unica anche per una storia breve
RispondiEliminaBravissima Sara. ..come sempre ,ogni tua storia è un' emozione unica anche per un racconto breve
RispondiEliminaBravissima Sara. ..come sempre ,ogni tua storia è un' emozione unica anche per un racconto breve
RispondiEliminaBravissima Sara....come sempre, ogni tuo racconto è un emozione unica anche per una storia breve
RispondiEliminaGrazie del regalo....una bella novella!!
RispondiEliminaChe bello!!! Molto dolce e romantico!! Adorabile!
RispondiEliminaIo adoro come scrivi Sara. Grazie per questo regalo.
RispondiEliminami hai fatta morire dal ridere!!bellissimo racconto!non avevo mai letto nulla di tuo e mi hai fato venire voglia di leggere ancora le tue storie!tutte voi che ci avete regalato questi racconti natalizi siete un pericolo per il portafoglio!!ancora complimenti!
RispondiEliminaBrava Sara! Non sbaglia mai un colpo. Mi è piaciuto davvero molto questo racconto :)
RispondiEliminaUn racconto ironico e romantico. Complimenti Sara, mi hai scaldato il cuore!
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