Buon martedì a tutti con un nuovo bellissimo articolo di Teresa Siciliano! Oggi la nostra prof ci parla di Italo Svevo e di come la realtà possa assumere mille volti; per leggerla, bisogna scegliere solo un acuto punto di vista!
Italo Svevo |
Ho preso
la maturità classica nel 1969 in un liceo di periferia di Roma, l’Orazio, che
all’epoca non aveva una sede propria, ma era sistemato in un edificio destinato
originariamente a condominio. Mi ricordo bene la ringhiera della scala, che
tremava in modo preoccupante, quando noi alunni uscivamo di corsa, ovviamente,
alla fine delle lezioni.
Non posso
lamentarmi dei programmi: in storia arrivammo alla II guerra mondiale e Yalta,
in letteratura italiana solo al primo Novecento: facemmo bene Pascoli e
D’Annunzio e, solo dietro pressione di noi alunni, Pirandello e Svevo, che
esaurimmo, però, in una lezione. Credo che ci fu un accenno anche a Montale e
Ungaretti. Di questi quattro autori mi pare che non leggemmo niente. Per quanto
riguarda Svevo ne sono assolutamente sicura.
Difatti
io lessi La coscienza di Zeno
addirittura dopo l’università e, se vi stupite che a lettere non avessi
studiato quest’autore, dovete capire che lo studio del Novecento era riservato
a Letteratura italiana contemporanea, esame mai stato obbligatorio neppure
prima della liberalizzazione dei piani di studio. Io lo scartai a priori perché
all’epoca non capivo niente della letteratura più recente ed ero rigorosamente
ottocentista. Ma la cosa più curiosa è che lo stesso atteggiamento era diffuso
fra le insegnanti di italiano ancora 40 anni più tardi, quando il mondo e la
cultura italiana erano andati molto avanti e io mi ero convinta ormai che gli
alunni dovessero conoscere assolutamente il mondo in cui stavano per entrare.
Per me le cose cominciarono a cambiare già a metà degli anni settanta, credo
sotto l’influsso di mio suocero, lettore fortissimo soprattutto della
letteratura latinoamericana, che allora veniva tradotta in italiano da Feltrinelli.
In realtà i nostri gusti specifici si incontrarono raramente: lui mi fece
leggere Cent’anni di solitudine di
GarcÃa Marquez, ma io impiegai decenni a farmelo piacere. E mai del tutto.
Invece
con Zeno fu per entrambi un colpo di fulmine fin dall’inizio. Del personaggio ci
piaceva l’ironia e l’autoironia, che lo rendevano così diverso dagli inetti noiosi
e lagnosi, tipici della letteratura inizio novecento. Del resto ancora mi
chiedo perché, in un secolo che ha prodotto tanto progresso scientifico e
tecnologico e allungato fino a tal punto la vita umana, almeno nel nostro mondo
occidentale, la letteratura abbia partorito solo tanta depressione e tanta
sfiducia nelle nostre capacità .
Svevo era
triestino, quindi suddito austriaco fino al 1918: si chiamava Schmitz, ma era
di famiglia italiana, anche se, per sua stessa ammissione, pensava in triestino
e tedesco. La sua lingua, quindi, si può definire una traduzione, donde i
calchi della sintassi tedesca e numerose incertezze ortografiche, che
compromisero per lungo tempo da noi la comprensione e l’apprezzamento della sua
narrativa. Perciò, nonostante il riconoscimento del giovane Montale, fu
“scoperto” da Joyce, che già aveva apprezzato molto Senilità , e dagli intellettuali francesi. Ma intanto, proprio perché le sue radici erano nella cultura
cosiddetta mitteleuropea, lo scrittore aveva avuto modo di conoscere Freud, le
cui opere sarebbero arrivate nel resto d’Italia, sostanzialmente, dopo il 1945.
Con
civetteria, immagino, Svevo dichiarava che di psicanalisi non sapeva niente,
cosa piuttosto inverosimile, visto che suo cognato era stato in cura da Freud
in persona, sembra, con molte spese e nessun risultato. Cosa per nulla strana
dal momento che, come si è saputo molti anni dopo, Bruno Veneziani era
omosessuale e pare che Freud gli avesse detto di non poter fare niente per “guarirlo”.
È passato quasi un secolo dalla pubblicazione della Coscienza e ormai i critici sono arrivati a pensare che, invece, Svevo avesse capito benissimo i capisaldi della psicanalisi.
Il
romanzo è troppo complesso perché io possa farne una trattazione appena appena
esaustiva nel breve spazio di un articolo. Perciò vi racconterò quali punti per
me furono importanti, tanto che per decenni arrivai a pensare che questo fosse
il miglior romanzo italiano. Meglio perfino dei miei amatissimi Promessi sposi.
Il libro
si presenta come un memoriale di Zeno: lo dichiara la prefazione dello
psicanalista dottor S., il quale afferma di pubblicarlo per vendetta contro di
lui e gli dà del bugiardo.
Non starò
qui ad elencare tutti i motivi per cui il comportamento di S. è
deontologicamente molto scorretto. L’antipatia ci induce a diffidare di lui e della
sua diagnosi, che ci verrà in seguito
raccontata da Zeno. D’altra parte la prefazione ci fa dubitare anche del
protagonista e del suo punto di vista, in forte contestazione rispetto alla
psicanalisi. Insomma già nella prima pagina del romanzo non sappiamo che
pensare.
La tesi
del dottor S. è che Zeno soffra di un complesso edipico irrisolto: il difficile
rapporto con suo padre, che ha i tratti normali del padre borghese dell’epoca,
un po’ come quello di Kafka, in qualche modo condiziona tutta la vita del
protagonista, che dopo la morte del padre naturale si sceglie un padre
sostitutivo, il signor Malfenti, e decide di sposarne una delle figlie, prima
ancora di averle conosciute: nel corso di una sola sera si dichiara alla
primogenita, poi alla più giovane, che entrambe lo rifiutano, poi alla terza,
Augusta, che invece lo accetta perché è da sempre innamorata di lui. Il
matrimonio con Augusta sembra quindi un ripiego, almeno agli occhi di Zeno, il
quale però sottolinea con nonchalance di aver riconosciuto sul suo volto il
sorriso della propria madre.
Si è
discusso per decenni se e quanto nel matrimonio di Zeno Svevo abbia
rappresentato il proprio, che però, a detta di tutti, fu molto felice. Certo
Livia Veneziani ha negato fino alla morte di aver ispirato la figura di
Augusta. E si capisce bene dal momento che nel romanzo viene tradita fin dalla
luna di miele. Solo verso la fine del Novecento la loro figlia ammise in una
intervista a Repubblica che… sì… forse… una somiglianza poteva esserci.
Nel
romanzo Augusta rappresenta la salute in contrapposizione alla malattia del
nevrotico Zeno. Come mai il protagonista finisce per concludere che le cose
sono esattamente l’opposto? Cioè che quella salute è malattia e la sua malattia
salute? Perché Augusta rappresenta la perfetta identificazione con i valori
borghesi e Zeno invece la ribellione ad essi e lo spirito critico.
Personalmente
mi interessò molto il tema del pudore. Augusta, prima del matrimonio,
arrossisce per un bacio, mentre dopo ritiene lecito e per niente imbarazzante
l’intero rapporto sessuale. Solo sulle pagine di Svevo cominciai a mettere in
dubbio i principi della morale cattolica che mi erano stati inculcati fin
dall’infanzia.
Nello
stesso senso funzionò un altro brano: “Di
domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come
sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella
visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi
giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato
religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.”
Qui
l’autore utilizza con grande abilità l’artificio dello straniamento: tutti noi
cattolici sappiamo a memoria le cosiddette feste di precetto, è normale, ma la
critica nei confronti di questa fede superficiale mi pare molto acuta.
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