Le serie di romanzi sono sempre
esistite. Immagino che in origine affondassero le radici nelle saghe: per
esempio i poemi del ciclo epico incentrati sulla guerra di Troia oppure quelli
su re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda. Personalmente ho amato sempre
molto le serie di romance. L’autrice sceglie un’epoca ed una ambientazione, si
documenta in merito, o almeno lo fa se è
seria, poi immagina una famiglia con vari figli e di ognuno fa il protagonista
di un volume, con il contorno degli altri personaggi. Ciò è funzionale
soprattutto per i romanzi storici, quelli che richiedono una maggiore
documentazione: si fa questo lavoro una volta sola all’inizio e poi si procede
per la strada tracciata, il che facilita il procedimento. Lo so, Manzoni
sosteneva che inventare la vicenda è la cosa più semplice, ma io non penso sia
vero o almeno non lo è nella narrativa di intrattenimento, soprattutto nel
mondo anglosassone, dove una scrittrice pubblica anche più volumi all’anno. In
questo modo è possibile individuare alcune caratteristiche di una famiglia e
farle tornare in diversi volumi, creando in chi legge una piacevole sensazione
di familiarità . E introdurre qua e là qualche variante per vivacizzare un po’
l’insieme. In fondo erano stati prima Balzac e poi Zola a inventare questa tecnica. Anche alcune
autrici di oggi utilizzano un tema conduttore da svolgere, espediente
interessante per fidelizzare i lettori, ma a volte fastidioso e soprattutto non
facile da portare fino in fondo per anni, salvando un’accettabile
verosimiglianza. Non è affatto semplice progettare un finale di buon livello,
che non lasci insoddisfatti dopo una così lunga attesa né faccia pensare “come?
tutto qui?”. Insomma, se i nostri eroi vanno alla ricerca del Santo Graal, alla
fine lo devono trovare e se, come è quasi sicuro (vedi Indiana Jones e l’ultima crociata), poi non potranno portarlo nel
nostro mondo moderno e scettico, l’autrice deve avere pronto un buon motivo e
una gratificazione sostitutiva. Non c’è niente di peggio che vedere i
protagonisti affannarsi e superare mille ostacoli per arrendersi nell’ultimo
tratto sostenendo senza pudore che non ne valeva e non ne vale la pena. Scherziamo?
Ogni volta che mi è capitato, ho provato il desiderio di strangolare loro e
l’autrice. Fortuna che non ne sarei mai capace. Non ne avrei le forze, intendo.
Sono molti i pericoli che si incontrano
scrivendo un romanzo e gli errori che si dovrebbero evitare. Innanzitutto lo
spauracchio maggiore è la morte, che deve essere riservata quasi soltanto ai
cattivi: i buoni al massimo si possono sacrificare per i protagonisti, e di
rado, perché la mission del rosa è il “per sempre”: i protagonisti devono
vivere indefinitamente e continuare ad amarsi. Certo tutti sappiamo che prima o
poi moriranno, ma ciò deve avvenire molto, molto più in là e noi non lo
dobbiamo vedere. Non lo dobbiamo vedere mai. Particolarmente insopportabile
uccidere il personaggio migliore o più amato (ecco perché ho smesso di vedere
Elisa di Rivombrosa e Il trono di spade dopo la prima stagione e Downton Abbey
dopo la seconda). Per esempio Lucinda Brant in Duchessa d’autunno uccide il marito con cui la protagonista si era
riunita dopo molte difficoltà nel volume precedente. Cosa che il suo modello,
Georgette Heyer, nella duologia La pedina
scambiata e Il figlio del diavolo,
si era ben guardata dal fare. E ciò nonostante la grande differenza d’età fra il
duca di Avon e Léonie. Ci sono volte in cui una rigorosa verosimiglianza è
insopportabile.
Errori simili hanno commesso la Albanese in Il profumo dei sogni, perché non aveva
capito che noi ci eravamo tutte innamorate proprio del comprimario che le
faceva comodo uccidere per lasciare il posto libero ad un altro, e la Melville in Mai notte più dolce, perché lei voleva darci il senso del tempo che
passa e delle generazioni che si succedono, mentre noi invece volevamo il
“vissero felici e contenti per sempre” e non ci
importava il numero dei decenni che erano corsi via nel frattempo.
Naturalmente entrambe le autrici sono state sommerse sotto le proteste (anche
violente) delle lettrici.
Potrei aggiungere che il protagonista
può avere magari una tendenza al male da correggere, ma deve possedere tutte le
altre virtù: ecco perché non mi è mai piaciuto in Innamorarsi di un lord della Balogh la figura di Alleyne, che se la fa sotto, quasi
letteralmente, alla battaglia di Waterloo perché scopre, guarda un po’!, che la
guerra è una brutta cosa e che lui rischia di morire ogni momento. E ciò senza
aver mai mostrato, né prima né dopo, idee pacifiste. Guardiamo, invece, quale
comportamento Tolstoj attribuisce a Pierre in Guerra e pace. Va bene, va bene, forse il paragone è ingeneroso.
Un’altra cosa che a me dà molto
fastidio è il totale cambiamento di personalità : intendiamoci, nel romance uno
dei compiti principali delle protagoniste è addolcire, rasserenare o
addirittura convertire i loro uomini. Però non è facilmente credibile che un
criminale che ha fatto cose terribili in un volume si ravveda totalmente e
grondi bontà nel seguito. Per la verità nelle soap capita spesso anche una
seconda conversione all’incontrario e a questo punto siamo proprio in un gioco
di ruolo. Ben lo ha capito la Albanese quando in Aurora d’amore fa sì convertire la sua malvagia, terribile Camelia,
tirando fuori un inaspettato antefatto per spiegare le ragioni psicologiche del
suo comportamento. Ma colloca la conversione nel finale, resistendo alle
insistenze di alcune lettrici che avrebbero voluto ancora un seguito.
E a questo proposito mi corre
l’obbligo, per giustizia, di rilevare che errori del genere li ha commessi
anche la divina Georgette Heyer, che nel Figlio
del diavolo trasforma la sua magnifica Léonie della Pedina scambiata in un’oca logorroica e nell’Incomparabile Barbara fa lo stesso con la Judith del Dandy della reggenza, diventata, non si
sa come non si sa quando, una dama perbenista e sempre attenta alle apparenze.
Ai miei occhi due veri e propri delitti.
Nessun commento:
Posta un commento