Perché bisgna RI-leggere "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni? Ce lo spiega Teresa Siciliano nel suo nuovo, bellissimo articolo!
Tutti a
scuola abbiamo studiato I promessi sposi.
In genere più di una volta. A volte addirittura tre. Non so quanti l’abbiano
amato. Potrei tranquillamente azzardarmi a dire: quasi nessuno.
Del
resto, come si fa ad amare un romanzo che si legge a spizzichi e bocconi per un
intero anno scolastico, su cui si viene interrogati (e magari si prendono
votacci) e su cui bisogna scrivere un’infinità di riassunti, confronti di
personaggi, temi sulle questioni più importanti? Penso che nessun autore
potrebbe sopravvivere a questo trattamento.
Eppure
non c’è nella nostra letteratura un’opera che ci rappresenti meglio, nei nostri
pregi e soprattutto nei nostri difetti.
Manzoni
scrisse il romanzo sostanzialmente fra il 1821 e il 1827, cioè dopo aver letto Ivanhoe di Scott e prima di tutti i
grandi romanzi ottocenteschi. Lo scrisse in polemica con la cultura
controriformista e in continuità con l’illuminismo, di cui era in qualche
misura erede: non per niente suo nonno era Cesare Beccaria e frequentavano la
sua casa i Verri, anzi suo padre biologico era proprio Giovanni Verri, fratello
di Pietro e Alessandro. Basta vedere i brani sulla carestia e soprattutto sulla
peste.
Come è
tipico dei veri romanzi storici, un po’ si vuole ricostruire la società
lombarda del seicento, un po’ probabilmente si allude all’epoca contemporanea,
nonostante allora la dominazione straniera fosse incarnata non dalla Spagna, ma
dall’Austria, paese ovviamente molto più avanzato e moderno.
La cosa
più interessante (o più terribile) è che la Lombardia manzoniana si identifica
ancora con l’Italia di oggi. Quali sono i punti in
comune?
Innanzitutto
manca la coesione e la società è un insieme di lobby, diremmo oggi, in perpetuo
conflitto/equilibrio fra loro. Il potere politico pensa esclusivamente al
proprio interesse senza nessun pensiero per il bene del popolo ed è
caratterizzato da inefficienza e corruzione. Non esiste giustizia, o meglio la
giustizia sta sempre dalla parte dei potenti. Ognuno fa riferimento al corpo
sociale di cui fa parte (don Abbondio ad esempio si è fatto prete per “procacciarsi
di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe riverita e forte”). I
nobili fanno affidamento sulle loro parentele e clientele e si circondano di un
folto gruppo di delinquenti, i cosiddetti “bravi”, per difendersi da qualunque
attacco e per spadroneggiare su tutto il resto della popolazione.
La Chiesa
ha due facce. Da una parte è quella della Controriforma: bada solo alle apparenze
e quindi può succedere che il principe padre di Gertrude e la badessa del
convento di Monza possano stringere un’alleanza per costringere la ragazza a
farsi suora, pur ben sapendo che ciò comporta la scomunica. Dall’altra
comprende persone come il cardinal Borromeo e fra Cristoforo, che si battono
per il bene.
A tutto
quello che lo Stato non riesce a fare sopperisce la parte migliore del clero:
per esempio durante la carestia e soprattutto durante la peste. E chi pensa
oggi ai poveri delle nostre città, se non la Caritas, sia pure con un aiuto
economico da parte dei comuni?
Agli
uomini di Dio che intendono così la religione Manzoni affida il compito di
pensare alle necessità del popolo e insieme tenerlo quieto, in attesa che la
parte migliore della borghesia modernizzi lo Stato e lo renda più egualitario.
E ciò perché sulla base del fallimento, secondo lui, della rivoluzione francese
è intimamente contrario ad ogni uso della violenza in politica: basta osservare
la severità con cui guarda ai promotori e partecipanti dei tumulti nel giorno
di S. Martino.
La
moderazione di Manzoni non è mai conservazione. Il suo Dio è il dio
giansenista, severo ma capace di scrutare fino in fondo ai cuori e pesare le
diverse responsabilità.
Ad
esempio, nel descrivere in che modo l’educazione nel convento spinge Gertrude
verso il chiostro, scrive: “Non che tutte
le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte
delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare
una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente
alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’
maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano
dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili.
Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a
quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina,
e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche”. Accanto alla netta
condanna delle monache ‘politiche’ (e dell’istituzione), c’è spazio per
distinguere le varie responsabilità personali.
Forse ora
sarà chiaro perché Manzoni, nonostante il suo rigore morale, non è mai piaciuto
molto ai cattolici, che potremmo definire integralisti: lo scrittore che in un
solo romanzo aveva inserito un parroco vigliacco, un frate assassino e una
monaca… (avete capito), poteva mai essere da loro approvato?
Davanti
alla domanda “perché il male” Manzoni non sa rispondere: per questo, secondo
me, è improprio definire I promessi sposi
l’epopea della Provvidenza: Dio certo esiste e certo volge tutto al bene, ma in
modi e forme che noi non comprendiamo. La peste porta via don Rodrigo, ma anche
fra Cristoforo. Renzo e Lucia si sposano e vivono felici, ma i guai, magari più
piccoli, continueranno a tormentarli. Donde la conclusione lieta, ma senza
idillio, come la definisce Raimondi.
Eppure
per Manzoni il cattolico non deve mai arrendersi, deve sempre diffondere il
bene intorno a sé. Ecco perché ai suoi occhi l’incontro fra l’uomo buono e
quello cattivo fa sempre prevalere quello buono, magari non subito, magari non
del tutto, ma sempre. Fra Cristoforo fa convertire in qualche modo il fratello
dell’uomo che ha ucciso. L’incontro con don Rodrigo sul momento sembra
addirittura peggiorare le cose, ma don Rodrigo si ricorderà di lui quando si
ammalerà di peste e forse sarà l’inizio di un cammino di conversione. Lucia
DEVE passare dal castello dell’innominato per dargli la spinta decisiva verso
un cambiamento totale di vita. Ma l’innominato è un nobile di antica stirpe
(secondo Manzoni, un Visconti) e quindi solo un altro nobile, ma di vita santa,
potrà poi indicargli la via da seguire. Questo è il realismo dello scrittore.
Se fate
un confronto con Stevenson, vedrete che
siamo agli antipodi: nel Dottor Jekyll e
Mister Hyde, ma anche in altre opere di quello scrittore, è il male a
prevalere sul bene. Senza scampo. Forse perché ormai siamo vicini al Novecento
e molte illusioni stanno cadendo. Forse perché semplicemente si tratta di due
concezioni della vita profondamente diverse.
Ho riletto (ma sarebbe più opportuno dire: letto, vista la tua giusta osservazione sui metodi di lettura scolastici) i Promessi Sposi a Londra, in crisi acuta di nostalgia nazionalistica. Devo dire che la lontananza serve almeno a questo: nello stesso periodo ho letto anche l'Orlando Furioso, divertendomi come una matta, imparandone a memoria dei pezzi e chiedendomi come mai non avessi notato quanto fosse divertente, al liceo. I Promessi Sposi (purtroppo senza fare nessuna delle tue considerazioni, Teresa!) me li sono goduti come un bel romanzone ottocentesco, pieno di colpi di scena e momenti di analisi - psicologica dei personaggi e sociale delle situazioni. Dovrebbe essere il modo in cui andrebbero letti i testi a scuola, tutto d'un fiato, ma temo che niente potrebbe averla vinta contro la noia della lettura obbligatoria.
RispondiEliminaQuando insegnavo al biennio, io avevo rivoluzionato la lettura di Manzoni. Il romanzo era la lettura casalinga del primo mese (poi una di quelle estive). A scuola si partiva quando gli alunni lo avevano letto tutto, si commentava e discuteva per temi. Tutto solo orale. Niente riassunti, commenti, ritratti scritti. Il numero di quelli che gradi vano davvero il romanzo aumentò a dismisura.
RispondiEliminaGradivano
RispondiEliminaPochi anni fa ho riletto Guerra e Pace, con molto piacere. Dopo il tuo articolo, Teresa, rileggerò I promessi Sposi e credo che lo gusterò molto di più. Ricordo ancora una domanda all'esame di maturità: Carneade, chi era costui? Che angoscia!
RispondiEliminaUn caro saluto Paola Picasso
Grazie Paola
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