L'Angolo di Matesi: "IVANHOE - WALTER SCOTT"



 



Oggi Teresa Siciliano ci parla del romanzo storico di Walter Scott e dell'influenza che l'"Ivanhoe" ha avuto su altri autori, tra cui Alessandro Manzoni. Voi avete letto il libro? Vi piacciono i romanzi storici? Commentate e fatecelo sapere!


 
Per romanzi storici si intendono comunemente quelli che vogliono ricostruire un’epoca anteriore di almeno 50 anni rispetto alla pubblicazione, anche se personalmente (avendo ormai 65 anni) non riesco ancora ad esempio a considerare storia gli inizi del Novecento, quando mio nonno combatté a Vittorio Veneto.
Il genere ebbe il momento di maggiore fortuna a partire dal 1819, quando Walter Scott pubblicò Ivanhoe, libro che esercitò grande influenza, per quanto riguarda noi italiani, sulla composizione dei Promessi sposi di Manzoni.
È ambientato all’epoca di Riccardo Cuor di leone e Giovanni Senzaterra (e Robin Hood) che compaiono tutti come personaggi. Lo sfondo è, quindi, la difficile fusione di Sassoni e Normanni per andare a formare il popolo inglese. Ivanhoe è un sassone, ma, anziché cercare di tornare alla situazione prima di Guglielmo il Conquistatore, ripone fiducia in Riccardo e si aspetta da lui che sia il re di tutti. Per questo lo ha seguito in Terrasanta, rompendo con suo padre Cedric, che lo considera un traditore, e lasciando la donna amata, Rowena.
In realtà il protagonista è una figura sbiaditissima come sempre nelle opere di Scott, perché deve rappresentare l’uomo medio, in un certo senso comune (!), il moderato favorevole alla conciliazione fra le parti avverse. Secondo la convenzione cominciata con l’Odissea, si presenta al castello di famiglia travestito da pellegrino e basta un mantello con cappuccio per non farlo riconoscere neppure da suo padre e dalla sua fidanzata. A seguito delle ferite riportate in un torneo, passa quasi tutto il romanzo a letto e morirebbe in un incendio, se non venisse portato in salvo di peso. Perfino nel finale (in cui va a salvare nel giudizio di Dio la figlia di un mercante ebreo, Rebecca, che lo ha curato dopo il torneo), sfiancato dal viaggio e tormentato dalle ferite, soccomberebbe se il suo avversario, il romantico eroe del male Bois-Guilbert, non morisse d’infarto, lacerato dal suo amore per la prigioniera e quindi dall’esigenza di salvarla a tutti i costi.
La figura femminile più riuscita del romanzo, infatti, non è Rowena, ma Rebecca, di cui l’autore sottolinea l’intelligenza e rappresenta il coraggio in una celebre scena molto melodrammatica. Nell’introduzione al romanzo lo stesso Scott risponde ai suoi lettori, che avrebbero preferito nella conclusione un matrimonio fra Ivanhoe e Rebecca, secondo il principio romantico dell’amore che trionfa su tutto, e accampa problemi di verosimiglianza storica: nel medioevo (e, in verità, forse non solo allora) il matrimonio fra un aristocratico sassone e una ragazza ebrea era davvero impensabile. Non ne sono sicura, ma forse il primo fu quello di Lord Carnarvon addirittura.
Manzoni concepì I promessi sposi proprio dopo aver letto, credo in traduzione francese, questo romanzo. Lo fa capire chiaramente ai suoi lettori più colti nell’episodio di Lucia al castello dell’innominato, dove la ragazza viene tenuta prigioniera nella stanza di una vecchia serva del signore a cui l’autore non si degna di assegnare neanche un nome: un personaggio insensibile ed egoista, che pensa solo ai propri comodi, senza capire neanche lontanamente le angosce della nostra Lucia. Qui Manzoni rielabora in modo significativo la figura scottiana di Ulrica-Urfrida, una donna che in modo simile accoglie Rebecca, prigioniera nel castello di Torquilstone. In questo caso la vecchiaccia si scopre essere stata la figlia del precedente signore sassone del castello, costretta poi a diventare l’amante del conquistatore. Trascinata da un ossessivo desiderio di vendetta, Ulrica ha sedotto Reginald, il figlio del suo nemico, e lo ha indotto ad assassinare il padre. Poi nella parte centrale del romanzo ultimerà la sua vendetta, dando fuoco alla stanza in cui Reginald giace ferito, provocando la sua morte e la propria.
Ovviamente la citazione serve a Manzoni per differenziarsi da Scott: ambientazione non medievale, ma seicentesca, niente melodramma, niente associazione amore-morte. Ugualmente, a differenza di Rebecca (per cui è meglio la morte del disonore), Lucia non minaccia e neppure pensa al suicidio per sfuggire allo stupro, ma si rivolge alla Madonna perché la salvi. Ugualmente mentre Bois-Guilbert è diventato cinico e malvagio a causa di una delusione d’amore, Manzoni cancella dalla storia dell’innominato un episodio analogo. E la ragione è chiara, se si considera che I promessi sposi sono un romanzo d’amore senza neppure un bacetto fra i protagonisti. Del resto, si dice che lo scrittore affermasse una volta che di amore ce n’era abbastanza nel mondo, senza bisogno di metterlo anche al centro della letteratura.
Interessante l’influenza indiretta della letteratura inglese sull’autore che poteva leggerla solo in traduzione: basta guardare il riferimento a Shakespeare “un barbaro che non era privo d’ingegno”, espressione ironica nelle intenzioni, ma evidentemente troppo sottile, dal momento che perfino il primo traduttore inglese dei Promessi sposi non la capì, anzi si offese molto.
E, per concludere, non posso non ricordarvi l’allusione polemica al Tom Jones di Fielding: in due scene parallele in cui il protagonista finisce in un’osteria e prende una bella sbronza, Renzo, a differenza di Tom, evita sempre di fare il nome della sua Lucia ai compagni di bisboccia: “ ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato trascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate”. Insomma, discrezione e riservatezza, perfino quando non si è più padroni di sé. Non per niente nel suo romanzo Tom Jones pagava duramente il proprio errore!

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