Giovedì 17 settembre uscirà "Tristan e Doralice", un romance storico firmato dall'italianissima Francesca Cani. Nell'attesa di poter acquistare il libro, vi lasciamo un piccolo assaggio. In anteprima per Insaziabili Letture, il primo capitolo della struggente storia d'amore di Tristan e Doralice!
Genere: Romance Storico
Editore: Leggereditore
Pagine: 448
Prezzo ebook: € 4,99
Prezzo cartaceo: € 14,90
Prezzo cartaceo: € 14,90
Uscita: 17 settembre 2015
Un romance storico di rara intensità, una storia d’amore e redenzione.
Sinossi:
Anno
Domini 1076. Sopravvissuta alla strage della sua famiglia, Doralice di Lacus
trova ospitalità a Canossa, dove la Grancontessa Matilda
la accoglie come una figlia. Quando l’orrore per l’assassinio dei suoi genitori
sembra aver lasciato posto a una tranquilla quotidianità, i piani di conquista
dell’imperatore sconvolgono il suo mondo. Tristan di Holstein, indomito
guerriero forgiato da mille battaglie, ha un’ultima missione prima di
riconquistare la libertà: deve colpire al cuore Matilda, strappandole quanto ha
di più prezioso. Doralice è la preda che osserva con occhi da demonio, uno
azzurro e freddo, l’altro ribollente d’oro fuso. Ma la prova dell’amore si
rivelerà la più pericolosa e lo spingerà a disobbedire al suo re, a sopportare
torture, rinunce, in nome di una felicità che potrebbe non esistere. Perché
forse è proprio lui il responsabile di un crimine che non può essere
perdonato...
Occhi del diavolo
1
Palazzo imperiale di Aquisgrana
Inverno 1076
Il lamento del corno da
caccia lacerò l’attesa, riempì l’aria fredda del mattino insieme al battere
veloce delle ali dei corvi e ai colpi sordi delle gocce di pioggia sulle
armature. I palpiti di Filippo di Lacus divennero frenetici, fondendo rabbia,
impotenza e speranza in un unico crogiolo e soffocando il panico che gli
aveva invaso i pensieri. I tonfi crebbero fino a ottundergli i sensi. La
determinazione corrugò il suo viso e una ragnatela di segni profondi, incisi
dal tempo e dall’amore, gli si concentrò sulla fronte, un istante prima che
abbassasse la visiera dell’elmo. L’odore di fango e sterco di cavallo era
penetrante, e quello dell’olio arso nei bracieri grattava la gola. Filippo
strinse le labbra fra i denti sino a sentire sulla lingua il sapore ferroso; il
sangue della sua stirpe divenne qualcosa di concreto a cui aggrapparsi con la
forza di volontà.
«Per Matilda di
Canossa!» ruggì, e spronò il baio dal manto color castagno.
La velocità di Peregrino
era stata la sua migliore alleata sui campi di battaglia e, nello spazio ridotto
della corte interna, si liberò con la violenza di una detonazione. Carne, muscoli, lancia e scudo si fusero nella mente di Filippo. Il vuoto si
impossessò di lui e una calma feroce gli appianò la fronte. Il mondo era
impazzito, costringendolo a combattere per coloro che aveva condotto ad
Aquisgrana credendosi protetto dalla carica di ambasciatore. Ma se l’ordine
delle cose era stato sovvertito, lui, un uomo di pace, si era ormai trasformato
in una belva pronta a battersi nella giostra.
Galoppò verso il
cavaliere dell’aquila nera, colpì con la lancia lo scudo di quercia e ferro. Fu
il più veloce, ma non poté evitare l’arma dell’avversario. Quando la punta
dell’asta si schiantò sul pettorale della sua armatura, il respiro gli si spezzò
in gola e il dolore si fece assoluto, la sua mente ne fu invasa. Lottò contro
la forza invincibile che lo investì, si oppose piegando il corpo e puntando i
piedi sulle staffe. Ma Peregrino si impennò facendogli sfuggire
di mano le redini, come fossero nastri di seta e non di ruvido cuoio. Filippo
di Lacus cadde spalle indietro nel fango, la schiena si schiantò contro le
rocce disseminate nel terreno, spuntoni d’argento che gli scavarono bozzi
profondi nell’armatura.
I pensieri sfuggirono al
suo controllo, schizzarono via come dadi d’avorio. I suoi sensi per un istante
furono inghiottiti dal buio baratro che il dolore gli aveva scavato dentro.
Boccheggiò, e l’aria ghiacciata tornò a dilatargli il petto.
«Non mi arrenderò,
Lucilla, amor mio» rantolò. Filippo era sdraiato a terra, le braccia
spalancate, il corpo devastato dallo scontro, e nessuno lo udì. Rievocò la
sensazione di pace e armonia che provava nel giocare con le ciocche d’oro di
sua moglie e, con un sorriso amaro, pensò a tutte le volte che quel gesto era
stato il preludio di un piacere dirompente. Gli parve di sentire la risata
allegra di Doralice, la loro bambina, acuta come il suono di un campanello
d’argento, travolgente come l’acqua spumosa delle cascate. Il rimpianto aveva
il sapore acre del fiele, unito a quello ferroso del sangue.
Doveva reagire. Doveva
farlo per loro. Il sudore gli imperlò la fronte e gli appiccicò i capelli al
cranio. Vagò con il pensiero per un tempo che gli parve infinito, poi mani
salde iniziarono a scrollarlo.
«Mio signore, resistete»
attaccò Cagliostro. La sua voce venne soverchiata dall’ovazione del pubblico.
Quel giorno a corte era
presente l’intera aristocrazia di Aquisgrana, e i nobili, sistemati sotto il
baldacchino, al riparo dalla pioggia, chiedevano a gran voce che lo spettacolo
continuasse. I gioielli di filigrana sottile, i veli ricamati nelle Fiandre, le
gemme, gli argenti teutonici e migliaia di perle provenienti dall’Oriente
facevano sfoggio di sé sugli abiti dei signori feudali. Alcune dame d’alto
rango indossavano elaborati copricapo conici intonati alle stoffe
delle vesti e portavano i capelli rasati sull’attaccatura della fronte, per
donare al viso la forma di un ovale perfetto. Il rosso carminio e il blu erano
i colori più comuni fra le tuniche degli alti dignitari, i cui abiti damascati
richiedevano lunghi mesi di lavoro da parte delle mani instancabili delle
sarte. Tutti loro, osservati dallo spiazzo della corte interna, sembravano
personaggi di stoffa intessuti in un vivido arazzo, ma
quest’impressione svaniva nell’udire le urla gonfie di oscenità e sete di
violenza che emettevano. Che fossero ricchi e ben vestiti o semplici scudieri,
erano lì, dal primo all’ultimo, per vedere il Sassone che si batteva come un
demonio.
Il primo cavaliere gli
sollevò la celata dell’elmo e sfilò la protezione di ferro, lasciando che la
pioggia gelida lavasse il viso di Filippo. Una cortina d’acqua li separava dal
palazzo, lo scroscio si abbatteva sui tetti del castello, sui bastioni e sulle
mura.
La giostra doveva continuare
o ci sarebbero state conseguenze terribili, Filippo se lo sentì nelle ossa,
quando intercettò lo sguardo del sovrano. La calma aveva abbandonato il volto
di Enrico IV, Rex Romanorum, che si era fatto livido, teso e ribollente di un
sadico senso d’attesa.
«Filippo, Filippo, il
futuro delle terre di confine è nelle vostre mani, sapete?»
tuonò il sovrano, e il clamore della folla eccitata si spense. «Cercate di non
perdere i sensi così presto o rovinerete lo spettacolo. Quando siete caduto
come un fantoccio nel fango ho creduto foste già spirato e che ci toccasse
rientrare per ingozzarci di cacciagione» ghignò, guardando lo zaffiro
che portava al dito indice. «Vedete, non ho ancora fame di carne tenera,
preferisco godermi lo scontro fra voi e la testa dura del mio campione, quindi
impegnatevi a non morire troppo presto» disse glaciale. Qualcuno rise, qualcun
altro applaudì, ma ancora una volta all’imperatore bastò un movimento del polso
per far calare il silenzio. «Non trovate anche voi, signore di Lacus, che
stringere alleanze in questo modo sia più...» cercò le parole «...stimolante?»
Piuttosto, degno della
fama che ti sei guadagnato, serpe, ruggì la mente di Filippo, scoprendo in quel
momento che il suo vero avversario era Enrico IV.
Si tirò a sedere
stringendo gli avambracci di Cagliostro, con le mani si tastò il petto scosso
da respiri veloci e superficiali. Lottò contro lo stordimento e il senso di
vuoto allo stomaco. Poteva avere un paio di costole rotte, le sentiva pulsare.
Non avrebbe valutato la via delle armi, se avesse potuto evitarla: era troppo
tempo che non combatteva. Nelle ossa e nei riflessi rallentati sentiva lo
scotto da pagare per la felicità che aveva vissuto da quando era diventato un
uomo di pace. Ma la guerra non si dimentica e, quando lo stalliere aveva
sellato Peregrino con groppiere di cuoio e maglia d’acciaio, i ricordi lo
avevano quasi sopraffatto. Una volta aveva difeso Canossa con il suo
sangue. Era stato forte, saldo, e la paura non lo aveva mai sfiorato. In quei
giorni lontani, però, Filippo non aveva nessuno di caro che gli appartenesse.
Aveva combattuto per l’onore, per la sua signora, per la fedeltà che aveva giurato;
per nient’altro. All’epoca non aveva mani di bimba da stringere e occhi
innocenti a guardarlo come se da lui dipendessero il principio e la fine del
mondo. Amava qualcuno anche allora, ma non era paragonabile a ciò che provava
ora per Lucilla. Un fuoco di paglia era stato il suo sentimento in passato,
mentre ora conosceva le fiamme che avvolgevano il legno di quercia, il cui rogo
ardeva nelle notti d’inverno.
Non doveva farsi dominare
dal rancore, doveva usare l’astuzia.
«Alla battuta di caccia
di ieri siete stato sfortunato, altezza. Il cinghiale a cui miravate deve
essere stato spaventato dall’avanzare del vostro seguito, così lo avete
mancato; ma nessuno che vi sfidi può sopravvivere, non è così? È stato un
vostro uomo a finire l’animale che oggi, insieme alle pernici, è sulla tavola.
Non mi perdonerei mai se pensassi di essere la causa della mancata riuscita del
banchetto» attaccò Filippo, nascondendo l’affanno. Con gli occhi
cercò tra la folla, augurandosi che Lucilla e Doralice non fossero presenti
sugli spalti ma, proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo, le
trovò. Deglutì il sapore bruciante del terrore e distolse gli occhi da loro.
«Due giorni fa mi avete detto di essere pronto a prendere accordi commerciali,
invece continuate a rimandare per prolungare il vostro svago. Chiudiamo la
faccenda in pace e sigliamo l’accordo, così le terre di Lacus e il confine fra
il vostro impero e il regno di Canossa godranno di anni d’abbondanza. Non c’è
bisogno di un combattimento per trarre profitto dalla nostra alleanza»
aggiunse. Preziosi istanti si ammonticchiarono come granelli di sabbia in una
clessidra. Doveva pensare, doveva trovare alle due donne una via di fuga.
«Dove sarebbe in questo
caso il divertimento, Filippo?» ghignò il sovrano. Un’espressione ferina si
impossessò del suo volto. «Forse la seduzione delle vostre parole fa effetto
sulle donne, le convince ad aprire le gambe. Ma qui siamo fra uomini d’onore e
quel che chiedete non sono propenso a cederlo, se non a caro prezzo. Quanto al
mio campione, lui si batterà o morirà: è venuto al mondo per essere uno
strumento nelle mie mani.»
I nobili della corte
proruppero in una fragorosa risata, mentre il giullare, vestito di canapa color
ocra, scimmiottava le movenze di Filippo in un balletto
grottesco. L’onore c’entrava ben poco con quello che stava accadendo nello
spiazzo della giostra.
«Come comandate, signore
dei germani.» Non il suo re. Non quello di un paladino di Canossa.
«Dove sono vostra moglie
e vostra figlia, Filippo? Le avete tenute lontane di proposito?» chiese Enrico,
il suo sguardo si fece affilato, da rettile.
«Lasciatele fuori da
tutto questo» ruggì Filippo stringendo i pugni. Ma si tradì, quando con uno
sguardo più intenso degli altri raggiunse Lucilla per implorarla di andarsene,
e fu visto.
«Perché? Loro fanno
parte del nostro accordo» sibilò il sovrano. «Lucilla è un suddito di Lacus, è
di fatto una vostra responsabilità difenderla e, se non ce la farete, perderete
i vostri diritti su di lei e su ogni altro abitante del confine. Compresa
vostra figlia.»
Per Filippo il supplizio
più atroce sarebbe stato nulla confrontato al terrore che fosse torto loro un
solo capello.
«Non toccherete la mia
famiglia» ringhiò.
Un servo del re, un
individuo viscido dai denti marci, strisciò verso le due donne. Filippo trattenne
il fiato, non poteva fare nulla per fermarlo. Strinse così forte i pugni da
sentire i muscoli dell’avambraccio gonfiarsi e premere contro le placche
dell’armatura. Il servo raggiunse Lucilla e le ghermì il mantello, strappandole
il cappuccio. La massa di fili d’oro si sparse al vento, le coprì in parte il
viso pallido e la linea serrata della bocca color amaranto. Lucilla non fiatò,
non diede a vedere che gli artigli le ferivano il braccio; si limitò a fare
scudo con il proprio corpo alla bimba, nascosta fra le pieghe della gonna.
Il cuore di Filippo
rischiò di scoppiare, fiero come non mai. «Maledetti. Prendono in ostaggio una
donna e una bambina, vorrei dimostrare loro come si batte un vero uomo» bisbigliò
Cagliostro, avvicinandosi per non essere udito da altri. «Diamo loro una prova
tangibile di cosa significa sfidare l’ira di Canossa» continuò, e con la mano
cercò l’arma appesa al fianco. Bastò quel gesto per mettere in allarme il
capitano delle guardie imperiali. Una decina di arcieri incoccarono le frecce e
le puntarono sulla corte interna.
Filippo trasalì e afferrò
il braccio del cavaliere. «Abbassa le mani, Cagliostro. Mantieni la calma»
ordinò. Si sentiva gelare, e non era per la pioggia che scorreva in rivoli
sotto l’armatura, beffandosi delle imbottiture di crine posizionate
dagli armaioli per renderla impermeabile. Trattenere l’ira divenne un gioco
d’astuzia e di nervi.
«Ha dei bei capelli
vostra moglie, Filippo» osservò il sovrano, quando il servo condusse Lucilla
davanti al trono. Sollevò una mano e ne raccolse una ciocca per portarsela alle
labbra; una scintilla di lussuria sfrenata gli incupì lo sguardo. Tutti sapevano
quanto amasse le donne dai capelli chiari, molte delle sue amanti avevano
quella caratteristica. La maggior parte delle giovani che entravano nel suo
letto erano bottini di guerra o doni di padri ansiosi di avere in cambio una
posizione a corte; tutte erano poco più che schiave, e quando lui se ne
stancava sparivano senza lasciare traccia.
La bocca di Lucilla si
aprì senza riuscire a emettere un lamento, le sue iridi turchesi lo
implorarono. Filippo scosse il capo e le sorrise, un segnale che in passato le
aveva dato quando le chiedeva di reggergli il gioco.
«Non provocatemi, potrei
perdere la lucidità e non essere all’altezza della giostra che avete
organizzato. Non siamo forse quasi alleati? Alla fine del duello, se Dio mi
vorrà vincitore, saremo buoni amici, non è così?» disse Filippo. «Sarò un uomo
dal cuore tenero, ma non voglio che mia figlia mi veda combattere. Consentite
loro di ritirarsi o è possibile che il vostro divertimento finisca ancor prima
di iniziare» aggiunse.
Enrico annuì, sporgendo
in avanti le labbra che spiccarono sul volto barbuto, traslucide come fossero
polpa di un frutto maturo. «Portatele nelle mie stanze, allora» disse il re,
accompagnando l’ordine con un gesto stizzito. «Ma tenetele d’occhio, non mi fido dei servi di Canossa, anche quando sono donne.» La
corte intera scoppiò a ridere.
«Filippo!» gemette
Lucilla.
Non opporre resistenza,
amor mio.
«Padre, non lasciatemi!»
strillò disperata Doralice, il piccolo volto inondato dalle lacrime.
Se ancora Filippo aveva
un cuore, in quel momento lo sentì spezzarsi. Strinse i pugni e percepì
un’ondata di nausea impadronirsi delle viscere. Doveva reagire. Il dolore per
la caduta si era affievolito e forse quel gioco crudele lo stava
avvantaggiando perché più durava lo scontro, più tempo aveva per pensare a come
salvare la sua famiglia.
Peregrino allargò le
froge e nitrì, rifiutandosi di cedere alle cure del giovane scudiero.
«Calma, amico. Calma.
Guardami, va tutto bene» sussurrò Filippo al cavallo, prendendogli il muso fra
le mani. Sentì il fiato caldo dell’animale sbuffare violento contro il
palmo, poi avvertì il ruvido contatto della sua lingua e i colpetti del capo
con cui il baio stabiliva il proprio contatto.
L’araldo prese posto
sulla predella e annunciò: «Per volere di Sua maestà l’imperatore, il secondo
scontro sarà disputato senza protezioni. Entrambi gli sfidanti saranno privati
di ogni difesa a parte quella offerta dallo scudo e
dall’armatura.»
Un brusio attraversò gli
spalti, riverberò greve e strappò un ringhio basso al fedele Cagliostro.
Dall’altra parte della piazza d’armi, il cavaliere che portava il simbolo
dell’aquila nera sul pettorale sbalzato dell’armatura si alzò sulle staffe
e, spronato l’imponente destriero, lo lanciò al galoppo per percorrere il
cerchio della corte. Al suo passaggio la folla impazzì. Il Sassone cavalcò
radente ai palchi, le pozzanghere si alzarono in flutti spumosi che odoravano
di acquitrino.
Il giro di trionfo lo
portò davanti a Filippo, il cavallo ancora fremente, mantenuto docile con la
forza. Fu in quel momento che il Sassone decise di togliersi l’elmo e il
camaglio, liberando i capelli fradici, bruni come l’acqua immota di un lago in
una notte senza luna. Il suo volto era liscio, di
una bellezza pura come la furia che lo animava; il viso di un angelo caduto,
pensò Filippo, seducente e terribile. Gli occhi di Tristan il Sassone si
sollevarono su di lui, pigri e autoritari; mettevano i brividi. In
quell’istante, mentre dischiudeva le labbra per la sorpresa, Filippo capì
perché a corte lo chiamavano Occhi del diavolo. Le sue iridi possedevano due
sfumature differenti: una era azzurra, fredda come una lama, e
poteva recidere il filo sottile della speranza solo fissando un uomo; l’altra
era del colore lezioso dell’oro fuso, segno che il demonio in persona guardava
il mondo attraverso quella pupilla.
Filippo non distolse
l’attenzione da quel viso, non abbassò mai la guardia e, alla fine, con un
sorriso di sfida il Sassone lisciò i capelli all’indietro e infilò l’elmo,
celando il suo spaventoso splendore.
«Ah!» tuonò Tristan e
scattò lontano, liberando la forza del destriero.
«Ha un viso crudele, mio
signore, ma lo potete battere. Non perdetevi d’animo» borbottò Cagliostro avvicinandosi.
Filippo riprese a
respirare, per quanto tempo aveva trattenuto il fiato? Scosse il capo, no, non
lo temeva; in fondo era solo un ragazzo dal viso pallido come quello di chi
prova paura e dalle labbra strette come se stesse facendo qualcosa di cui nelle
proprie stanze si sarebbe pentito. Aveva forse un’anima colui che chiamavano
Occhi del diavolo? Se aveva anche solo una debolezza, Filippo l’avrebbe
sfruttata.
Montò a cavallo e,
chinandosi per afferrare la lancia offertagli dallo scudiero,
si rivolse al primo cavaliere: «Cagliostro, porta mia moglie e mia figlia
lontane dal castello. Dovrai batterti per loro e allontanarti dalle stanze del
re prima della fine del prossimo scontro. Di’ a Lucilla che la amo e che dovrà
raggiungere Canossa, dove troverà una potente alleata. Tu andrai con loro, le
proteggerai. Ti affido ciò che ho di più prezioso.»
Il suo cuore cessò di
battere in quel preciso istante. Lo sentì spegnersi, arrendersi, come fosse la
fiamma di una candela in procinto di annegare nell’ultima
goccia di cera.
«Mio signore, non vi
lascerò» protestò Cagliostro. «Potremmo ribellarci. Con la mia spada e la
vostra abbatteremo una decina di uomini prima di cadere sotto i colpi degli
arcieri.»
«No, non reagiremo.»
«Ma non potete piegarvi
a questo gioco crudele» replicò il primo cavaliere; e infatti il signore di
Lacus non lo avrebbe fatto, non finché le ossa lo avrebbero sorretto.
«Ora vai, amico.»
Vedendo gli occhi di Cagliostro dilatati dall’orrore, Filippo sperò che i
propri non trasmettessero alcun turbamento. «Questa volta farò a meno della tua
spada. Sei stato l’unico uomo di cui mi sia mai fidato, non deludermi. Vai
subito, è un ordine.»
Il primo cavaliere
s’inchinò, ingoiò le lacrime e gli rivolse uno sguardo carico di
determinazione, più forte di qualsiasi giuramento. Cagliostro raggiunse gli
spalti camminando con lentezza, soppesando la situazione senza dare
nell’occhio, poi, in un batter di ciglia, scomparve.
Filippo avvicinò alle
labbra il vessillo dell’unicorno blu e baciò la stoffa
fradicia di pioggia. Quel simbolo evocava un’antica alleanza e rappresentava
l’unica speranza che aveva per mettere in salvo la sua famiglia. Vi si affidò
senza riserve, perché Matilda di Canossa avrebbe onorato la propria promessa.
Un dubbio lo folgorò: la sovrana avrebbe accolto di buon grado sua moglie e sua
figlia? Sì, Matilda me lo deve, pensò e, prima di abbassare la visiera
dell’elmo, si segnò con la mano destra. Per la sofferenza che li aveva
uniti, per le battaglie, per la forza stessa del destino che lo legava ancora a
Canossa, Matilda avrebbe reagito.
«Ragazzo, procedi» disse
rivolto al giovane scudiero. «Certo, mio signore. Tolgo subito la copertura
alla lancia.» La punta acuminata dell’asta balenò, catturando il bagliore
intenso di un braciere. La pioggia cadeva incessante sulla piazza d’armi del
palazzo reale, formava pozze scure su cui si specchiavano le sagome a coda di
rondine dei merli e alimentava il fiume di fango, che imbrattava ogni
superficie al centro della corte. La struttura di frassino della giostra e le
lance dei combattenti si stagliavano contro il cielo grigio, come ossa di una
mano scheletrica protese verso l’alto. I gonfaloni imperiali frustavano l’aria,
fradici d’acqua e cangianti come ali di corvo.
Il corno da caccia
lanciò il segnale.
«Per Canossa!» gridò
Filippo, la voce arrochita dall’emozione.
Spronò Peregrino,
strinse le ginocchia e bilanciò il peso in avanti. Le mani chiuse come morse
sulla lancia e sulle briglie. Il clangore delle armi risuonò assordante quando
a metà dello spiazzo i cavalieri si affrontarono, lasciando il
pubblico ammutolito. Il Sassone arrivò per primo e colpì l’avversario fra le
placche dell’armatura, dove a protezione della pelle c’era solo uno strato di
cuoio spesso. Filippo avvertì la carne del bicipite lacerarsi, trafitta della
lancia di Tristan. Il braccio sinistro non poté più sostenere l’asta, che cadde
e rotolò lontano. Filippo si accasciò sul dorso di Peregrino e chiuse gli
occhi; il braccio penzolava inerte, il sangue macchiava il manto lucido del
baio.
L’ovazione del pubblico
divenne assordante.
La rabbia arrivò prima
di qualsiasi altro sentimento e lo colmò. Filippo fece appello a tutte le sue
forze, scivolò giù di sella e si strappò di dosso l’elmo e il camaglio. Non
poteva rimanere disarmato. Sguainò la spada. L’aria usciva tra i suoi denti
stretti in respiri sempre più corti e frenetici.
Il Sassone lo imitò,
un’ombra scura e silenziosa. Dagli spalti, gli incoraggiamenti a Occhi del
diavolo erano ruggiti con ferocia, segno che la belva assetata di sangue era il
beniamino del pubblico. Enrico IV si alzò dallo scranno per congratularsi con
il campione, levò le mani al cielo plumbeo e accolse il plauso dei sostenitori.
«A morte Canossa!» «Che
venga sbudellato!»
«Facciamolo tirare dai
cavalli!» gridò qualcuno.
«Lo spettacolo non è finito»
ruggì Enrico. «Deve ancora nascere il servo di Matilda che
possa mettere in difficoltà Tristan il Sassone» esultò.
Le risa, atroci e
penetranti, echeggiarono nella corte interna. «Fatevi avanti, demonio» ringhiò
Filippo, rivolto al Sassone. Le orecchie gli pulsavano sorde e un violento
capogiro lo fece barcollare. Inspirò l’aria gelida del mattino e con uno scatto
di nervi schizzò in avanti. Si abbatté sull’avversario, che
agile schivò il colpo.
«Avreste dovuto
riposare, signore» disse Occhi del diavolo. Aveva una voce profonda e un
accento del settentrione che la rendeva fredda. «Volete forse morire? Chiedete
pietà. Credetemi, il vostro sacrificio non sarà necessario, se vi dimostrerete
umile.»
Eccolo, il guizzo di
coscienza in cui aveva confidato Filippo. Il Sassone non avrebbe fatto del male
a Doralice e Lucilla, nemmeno se lo avessero costretto. Lui no, ma quanti altri
servi crudeli aveva Enrico?
«Avrete una ben magra
vittoria, figlio di Satana. Non piegherete Canossa» sibilò Filippo a denti
stretti. L’ira lo accecava e lo sorreggeva. La sua spada trovò il vigore di un
tempo e mise alla prova il braccio del giovane sfidante. Questi era più alto di
lui, aveva un busto flessuoso e gambe lunghe, che teneva piegate per imprimere
maggiore forza nella lama. Filippo fece scorrere la spada sul filo di quella
del campione, poi con un affondo fulmineo lo
raggiunse alla coscia.
Il ragazzo aggrottò appena
la fronte, le sue labbra non si piegarono e, mentre il sangue gli sgorgava
dalla gamba, attaccò, costringendo Filippo a chiudersi in una difesa disperata.
«Lo avete voluto voi»
inveì cupo il Sassone. «Dovrete prendermi un pezzo alla volta, demonio.»
«Lo farò» rispose
Tristan e, prima che l’avversario potesse evitarlo, il filo della spada penetrò
fra le placche della sua armatura.
La mano con cui Filippo
reggeva la lama si tinse di rosso e il cuore gli scoppiò non di paura, ma per
l’onda invincibile della speranza. Erano ancora pari, lo poteva battere.
Ma a ogni istante che
passava, assalti, clangore dei ferri, boati e insulti che gli piovevano addosso
si facevano via via più distanti, sfumati nella sua mente. Qualcosa non andava.
Sentiva le dita rigide, come se le avesse immerse troppo a lungo nella neve, e
la ferita alla spalla bruciava come se vi fossero stati introdotti carboni
ardenti. Era nebbia quella che lo ostacolava? Perché i rumori erano distorti?
Cosa gli impediva di capire quali nefandezze stessero uscendo dalla crudele
bocca del re?
Filippo emise un gemito
strozzato.
«Veleno» ansimò. «Avete
usato il veleno.» Macchie nere come inchiostro coprirono gran parte della sua
visuale. Un fiotto ardente gli bruciò le vene, partendo dai tagli che le armi
del Sassone gli avevano inferto. Lo stomaco gli si rivoltò sulla terra bagnata.
Filippo cadde sulle ginocchia, le mani strette al petto, il cuore che non
riusciva a battere regolare.
«Cosa vi sta
succedendo?» latrò il Sassone.
Era stato uno sciocco a
credere di potercela fare. Era stato così pervaso di sentimenti di moralità da
continuare a credere di poter difendere Lacus, mentre il suo corpo era già
sotto terra. Anche le ginocchia cedettero e Filippo cadde su un fianco, un
guscio vuoto fatto di ferro e dolore straziante. Per lui la morte non sarebbe
giunta con la clemenza delle armi, ma fra sofferenze atroci,
contorcendo il corpo e stracciando gli ultimi brandelli della sua anima.
«Lucilla. Doralice.»
Due nomi. Due destini
che scivolarono fra le sue dita, come fossero granelli di sabbia troppo sottili
e leggeri per essere trattenuti.
L'autrice:
Grazie, Isaziabili! Sarà un bel malloppone, le pagine saranno molte di più di 288, siete avvisate! <3
RispondiEliminaE' già finito nella mia lista dei libri da leggere!!!
RispondiEliminaMi ispira molto *.* lo prenderò di sicuro xD
RispondiEliminada leggere!!
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