Un racconto dolcissimo che ricorda le note di "I'll be home for Christmas" di Bing Crosby.
Perché la voglia di tornare a casa a Natale diventa necessità di essere abbracciati dall'amore.
Per Romantic Xmas, vi presentiamo oggi "Buon Natale, Capitano" di Emma Dee Haynes.
Perché la voglia di tornare a casa a Natale diventa necessità di essere abbracciati dall'amore.
Per Romantic Xmas, vi presentiamo oggi "Buon Natale, Capitano" di Emma Dee Haynes.
“Il Capitano Dawson è pregato di
presentarsi urgentemente nell’ufficio dell’Ammiraglio Tibbs”
La voce
metallica dell’interfono mi fece sussultare. Stavo preparando la sacca per
tornare finalmente a casa in congedo e mi ero incantato a guardare la foto di
mia moglie e mia figlia che Sally si era premurata di farmi avere. A forza di
tenerla fra le mani ormai era consunta, ma non potevo smettere di pensare che
finalmente sarei riuscito a tenere mia figlia fra le braccia per la prima volta.
Mancavo da casa ormai da un anno e, al tempo, la piccola Olivia stava per
nascere. Mi avevano richiamato in servizio d’urgenza su questa portaerei che
ormai era diventata una seconda casa. Qui, in mezzo al nulla, con solo il rombo
dei motori degli aerei da combattimento a fare compagnia, era dura non mollare
tutto ogni volta, ma quando guardavo quella foto trovavo la forza necessaria
per resistere. Sapevo che presto sarei tornato; adesso il momento era arrivato.
Bussai
energicamente alla porta ed entrai trovandomi davanti l’Ammiraglio Tibbs che
scrutava l’orizzonte dalla sua finestra sulla torre di controllo, mentre gli
aerei partivano e atterravano in continuazione.
«Dawson,
si sieda. So bene che sta per andare in congedo ma purtroppo devo deviare il
suo rientro a casa.»
Quella
notizia mi gelò il sangue nelle vene. Non era possibile. Dopo tutto quel tempo
non stava succedendo davvero.
«Signore,
non capisco.»
«Purtroppo
dalla base Miramar mi hanno comunicato che deve rientrare per un fatto
puramente burocratico. Il Capitano che prenderà il suo posto è bloccato alla
base e serve l’autorizzazione del più alto in grado per poterlo far arrivare
qui. Dopo di me, sa benissimo, che lei è il più alto in grado, e siccome io non
posso lasciare il comando dovrà occuparsene lei di
persona»
Mi
alzai di scatto come scottato da quella che, alle mie orecchie, pareva proprio
un’idiozia.
«Signore,
sono in servizio permanente qui da un anno e vorrebbero farmi credere che per
tornare alla mia casa, dalla mia famiglia, io debba rinunciare per delle beghe
burocratiche?»
L’ammiraglio
mi guardò comprensivo, capiva bene quanto me la situazione. Chiunque avesse una
famiglia su quel trabiccolo galleggiante, capiva perfettamente quanto la voglia
di tornare a casa ti spingesse anche a disobbedire a un superiore, col rischio
di giocarsi il permesso di uscita.
«Si
sieda, soldato.»
Distrutto
ormai dalla consapevolezza che se avessi voluto tornare a casa mi sarei dovuto
piegare a quello stupido volere, ripresi posto sulla sedia.
«So
bene come ci si sente; ci sono passato moltissime volte. Non ho visto nascere
nessuno dei miei figli… e ne ho quattro. Pensi mia moglie com’è contenta di
questa cosa.»
Abbozzò
un sorriso che riuscii a malapena a ricambiare.
«Subirà
solo un ritardo di al massimo 24 ore. Sarà scortato fra un’ora in elicottero
fino a Miramar e poi da li potrà dirigersi all’aeroporto di Los Angeles per
prendere l’aereo che la porterà a Washington dove farà scalo per poi proseguire
fino a Ottawa. Mi sono sincerato di prenotarle i biglietti in modo che non
dovesse pensare a nulla. Mi dispiace davvero tanto per questo contrattempo, ma
pensi solo che sono 24 ore, non di più»
Mi
alzai e lo salutai con il saluto militare, che lui ricambiò. Poco prima di
richiudermi la porta alle spalle parlò di nuovo.
«Capitano!»
Mi
voltai in attesa.
«Passi
un sereno Natale con la sua famiglia e dia un bacio alla piccola Olivia da
parte mia»
Mi
sorrise benevolo. Lo ringraziai con un cenno del capo e mi congedai.
Tornai
al mio letto e finii la sacca. Dovevo comunque tenere la divisa, visto che
stavo per rientrare alla base, quindi, essendo già pronto, mi diressi sul ponte
di decollo. Frank, il Tenente Smith, era già in fase di rollaggio, mentre
faceva il check all’elicottero.
«Ehi
Frank, sarai tu a riportarmi a terra?»
«Sì,
fratello e non sai come ti invidio.»
Mi
strinse la mano e poi prendemmo posto sull’elicottero. Indossammo le cuffie,
agganciammo le cinture e ci preparammo al decollo. Avrei avvertito Sally da
terra, sulla portaerei le comunicazioni erano sempre troppo difficili, così
spesso ci scrivevamo, allungando però i tempi di attesa. Adesso dovevo farle
sapere in qualche modo che avrei ritardato di un giorno il mio arrivo a casa.

Rispose
la segreteria telefonica e mi resi conto, guardando l’orologio, che Sally sicuramente
era al nido a prendere Olivia. Lasciai comunque un messaggio così che, al suo
rientro, lo avrebbe sentito e non sarebbe stata in ansia.
Presi
un taxi dalla base e mi diressi all’aeroporto di Los Angeles, dove il volo
sarebbe decollato a breve. Il tempo di imbarcare il bagaglio e fare il check-in
e partimmo. Passavo così tanto tempo fra le nuvole che ormai la terra ferma mi
faceva quasi girare la testa. Forse, però, era solo l’idea che fra poco avrei
rivisto la mia famiglia a farmi venire le vertigini.
Atterrammo
a Washington dopo quattro ore e mezzo e fummo investiti da un vento gelido che
non prometteva nulla di buono. Dovevo attendere 45 minuti per la mia
coincidenza ma, quando mi soffermai a controllare lo schermo partenze, mi resi
conto che la sfortuna quel giorno ce l’aveva proprio con me. I voli diretti a
nord erano stati annullati in quanto, sopra lo stato di New York, si era
abbattuto un terribile nubifragio che non consentiva di sorvolare lo spazio
aereo. Le linee erano saltate; né il cellulare né il telefono pubblico avevano
linea: ero ufficialmente isolato dal mondo. Rimpiangevo quasi lo stare in mezzo
al mare nel nulla assoluto; almeno lì non ero solo.
Mi
alzai dalla poltrona della sala d’attesa dopo più di un’ora, ormai stanco di
stare seduto, e mi appoggiai al finestrone che si apriva sulla pista di
atterraggio e decollo. Il cielo si era fatto bianco e dopo un po’ vidi scendere
piccoli fiocchi di neve che via via prendevano sempre più consistenza. Un
albero di Natale allestito nella sala si rifletteva sul vetro accanto al mio
viso, ormai del tutto abbattuto. Mi guardavo riflesso in quel triste posto,
lontano da tutti, lontano da tutto, senza poter comunicare o semplicemente
andarmene. Al momento nemmeno una bicicletta avrebbe potuto portami altrove.
Mentre
la neve attecchiva sul terreno, mi trovai a sorridere; Sally amava la neve. Da
ragazzi, appena fidanzati, andavamo spesso in montagna e lei adorava buttarsi
nei cumoli di neve e me la lanciava finché non mi arrendevo e la raggiungevo a
terra per farle compagnia.
Fui
risvegliato dai miei ricordi da qualcosa che si arpionò alla mia gamba. Guardai
in basso e vidi una piccola testolina bionda con due occhi azzurro cielo
intenso, proprio come i miei, che mi fissava con un enorme sorriso. Staccò le
braccine dalla mia gamba e, incerta sulle gambine, diresse le mani verso di me.
Non
poteva essere vero, stavo sognando, non era possibile.
«Dada.»
Scossi
la testa, incredulo. Mi ero addormentato e non me ne ero accorto.
«Sono sicura
che stesse proprio chiamando il suo papà.»
Mi
voltai di scatto, avrei riconosciuto la sua voce fra mille. Sally era in piedi,
poco distante da me, e mi guardava sorridente.
«L’ammiraglio
mi ha avvisato subito e, siccome avevano avvisato del pericolo che le
comunicazioni sarebbero state interrotte, siamo volate qui perché non volevamo
passare un altro giorno senza di te.»

«Amore
di papà, finalmente posso abbracciarti.»
La
bambina sorrise ancora di più riempiendomi il viso di baci, mentre con le manine
mi tirava la barba. Risi e mi avvicinai a Sally per stringerla a me e baciarla.
Mi guardò negli occhi, commossa.
«Bentornato
da noi, amore mio.»
Le
strinsi di più a me.
«Ora
sono a casa.»
Le
dissi semplicemente.
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