Per Teresa Siciliano leggere la letteratura è una abilità che deve essere acquisita e coltivata... e che può riservarci delle grandi sorprese. Scoprite come educare voi stessi alla lettura!
Molti
anni fa lessi Come un romanzo di Pennac e,
lo confesso, non condivisi per niente la tesi di fondo. Il
suo decalogo va senza dubbio bene per un lettore generico. Anzi tutti noi cosiddetti lettori
forti seguiamo proprio quelle regole: leggiamo quello che ci pare, saltiamo le
parti che non ci interessano, sbattiamo al muro i libri insopportabili (forse
dovrei dire sbattevamo, perché con gli ebook non si può fare più, ci si limita
a seppellirli dentro i reader). Non si tratta necessariamente di libri
scadenti.
Per esempio io non ho mai letto Louis-Ferdinand Céline: ho cominciato per tre volte il Viaggio al termine della notte e non sono mai riuscita ad andare avanti. Alla fine mi sono attenuta al consiglio di Dacia Maraini: in questi casi vuol dire che non è il nostro momento giusto per quel testo. Oppure che non lo sarà mai. Qualcosa del genere, ma con esito differente, mi accadde con Se una notte d’inverno un viaggiatore: lo comprai perché un critico aveva trovato (giustamente) una somiglianza con Il nome della rosa di Eco.
Naturalmente, come direbbe Fantozzi, fu una delusione mostruosa, perché a prima vista era del tutto diverso: quando l’autore ricominciò il romanzo per la terza volta e io sospettai che avesse voglia di continuare (e non mi sbagliavo perché ricominciò per 10 volte!) non sbattei il libro, ancora cartaceo, al muro solo perché avevo un sacrosanto rispetto per tutto quello che veniva stampato. Ma certo con un puah lo schiaffai nella libreria. Dopo la morte dell’autore, però, con il passare del tempo mi resi conto, da insegnante di italiano, che aveva lasciato un’impronta fondamentale nella nostra letteratura e nel nostro secolo. Per cui ripresi in mano il romanzo e, per costringermi a finirlo, lo assegnai come lettura ai miei alunni. Quando riuscii ad arrivare alla metà, mi si aprì un mondo. Succede. Succede anche ai giovani. Cioè nella fattispecie ai miei alunni.
Per esempio io non ho mai letto Louis-Ferdinand Céline: ho cominciato per tre volte il Viaggio al termine della notte e non sono mai riuscita ad andare avanti. Alla fine mi sono attenuta al consiglio di Dacia Maraini: in questi casi vuol dire che non è il nostro momento giusto per quel testo. Oppure che non lo sarà mai. Qualcosa del genere, ma con esito differente, mi accadde con Se una notte d’inverno un viaggiatore: lo comprai perché un critico aveva trovato (giustamente) una somiglianza con Il nome della rosa di Eco.
Naturalmente, come direbbe Fantozzi, fu una delusione mostruosa, perché a prima vista era del tutto diverso: quando l’autore ricominciò il romanzo per la terza volta e io sospettai che avesse voglia di continuare (e non mi sbagliavo perché ricominciò per 10 volte!) non sbattei il libro, ancora cartaceo, al muro solo perché avevo un sacrosanto rispetto per tutto quello che veniva stampato. Ma certo con un puah lo schiaffai nella libreria. Dopo la morte dell’autore, però, con il passare del tempo mi resi conto, da insegnante di italiano, che aveva lasciato un’impronta fondamentale nella nostra letteratura e nel nostro secolo. Per cui ripresi in mano il romanzo e, per costringermi a finirlo, lo assegnai come lettura ai miei alunni. Quando riuscii ad arrivare alla metà, mi si aprì un mondo. Succede. Succede anche ai giovani. Cioè nella fattispecie ai miei alunni.
A
differenza di Pennac, infatti, appartenevo a quella categoria di insegnanti che
costringono a leggere i propri allievi. Poi aprivo
sempre una discussione sul libro. Non importava se era piaciuto o no,
verificavo sempre che il romanzo fosse stato letto. Cioè sceglievo dei brani
nella parte finale, dei brani che non era possibile non riconoscere e assegnavo
tre a chi non era in grado di identificarli.
Come sapete, sono contraria alla pena di morte e quindi era possibile una prova
di recupero: rammenterò sempre quelle due ragazze che beccai in fallo su Le relazioni
pericolose di Laclos e che si impegnarono per rimediare a quel
tre. I loro occhi luccicanti di entusiasmo, quando scoprirono che un romanzo
epistolare poteva essere un capolavoro.
Insomma,
personalmente, credo che quella di leggere letteratura sia un’abilità che
dev’essere acquisita e coltivata. Perché all’inizio è un’attività difficile.
Certo un giovane può scegliere di leggere quello che preferisce, ma gli devono
essere imposti anche i classici. Perché, come diceva appunto Calvino, un classico
è un libro che non smette mai di dire quello che voleva dire: le epoche e le
civiltà passano, non parliamo poi delle vite dei singoli individui. Ma i veri
classici restano. Anche se, con lo scorrere del tempo, hanno bisogno di un
sempre maggiore supporto e aiuto alla comprensione.
Quindi
un libro al mese obbligatorio, uguale per tutti, in modo che se ne potesse
discutere tutti insieme, così che i meno dotati imparassero a fare un’analisi
critica dai più bravi. Niente schede, riassunti, analisi scritte: il modo
migliore per far odiare la letteratura. Nell’estate fra il terzo e il quarto
anno toccava a Tolstoj e Dostoevskij: due romanzi fra le 800 e le 1000 pagine,
che i ragazzi si portavano sotto l’ombrellone (le letture da ombrellone non
sono tutte uguali!) e sfoggiavano con civetteria davanti agli occhi degli
amici. Immagino mandandomi accidenti, accompagnati da sospiri di disappunto. Ma
in realtà crogiolandosi nello stupore degli altri e nella propria superiorità.
Che ti credi? Noi siamo così.
Di
che parlavamo nelle ore di discussione? Innanzitutto se il testo era piaciuto o
no. Libertà di parola completa. Però ognuno doveva motivare il proprio parere,
anche se in modo all’inizio semplice. Poi si cercava di ricostruire la
personalità dell’autore, il suo modo di vedere la vita e i rapporti umani, le
sue opinioni politiche e morali. Per incoraggiare gli interventi, si
gratificavano con valutazioni sempre positive che entravano a far parte del
voto quadrimestrale, secondo rapporti precisi e chiari (questo perché la scuola
italiana è basata sul voto, sarebbe ipocrita negarlo). Pian piano tutti
acquisivano un metodo critico e la maggior parte arrivava a capire il piacere
della letteratura, almeno nei testi più congeniali. Bastava qualche mese perché
tutti migliorassero di molto la loro velocità di lettura.
Partivo
sempre spiegando ai giovani la loro situazione di privilegio: mentre in tante
parti del mondo, dicevo, dei vostri coetanei stanno lavorando duramente in
cambio della canonica tazza di riso al giorno, voi avete la fortuna che il
vostro paese e la vostra famiglia investono un sacco di soldi sulla vostra
formazione, per fornirvi competenze superiori. Che vi serviranno in futuro,
anche se nessuno di voi diventerà scrittore o svolgerà un’attività strettamente
intellettuale. Per conoscere il mondo e la società in cui viviamo e migliorarli.
Il
fatto è che non sempre leggevamo narrativa: testi fissi del triennio erano
anche Il Principe
di Machiavelli nel terzo anno e Dei delitti
e delle pene di Beccaria nel quarto. Testi imprescindibili
per capire i fondamenti della nostra civiltà. In questi due casi la lettura era
sempre integrale, ma, per la sua intrinseca difficoltà, spezzata in quattro
sezioni settimanali.
Lo
confesso: per me queste lezioni erano le più gratificanti e credo lo fossero
anche per molti alunni. Quanto agli altri, lo facevano un po’ per dovere, un
po’ per convenienza, talvolta per affetto nei miei confronti (nell’ambito di
quella che Recalcati ha definito, facendomi fare un salto sulla sedia, erotica
dell’insegnamento).
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