IL NOME DELLA ROSA
Umberto Eco
Ogni tanto su Amazon vado a cercare le
recensioni dei grandi classici. Naturalmente non quelle a cinque o quattro
stelle, ma quelle da una o due. Nei giorni scorsi casualmente ho curiosato
nella pagina del Nome della rosa e ho
trovato due perle da una stella.
Tal Andrea definisce il libro “noioso”
e commenta: “Non è assolutamente un
libro che consigliere (sic!) ai miei amici e tanto meno al mio acerrimo
nemico... Forse se lo rileggerò quando sarò più anziano cambierò idea”. Tutto
sommato, candido e perfino riflessivo.
Ma un tal Janpy fa molto meglio: “Il
nome della rosa rispecchia esattamente cosa penso di Umberto Eco: noioso e
borioso. Altro che thriller. Pagine su pagine di tediose descrizioni, tediosi
elenchi, tediose disserzioni (sic!) religiose. Ogni tanto, un cadavere, un po'
di sangue, un sospetto. E poi ancora tediosi riferimenti, tediosi particolari,
tediose citazioni in latino. Il tutto mentre il Professor Eco starà godendo
sulla sua poltrona, tronfio e superbo. Dimenticavo: provate a leggere un rigo
sì, un rigo no. O un paragrafo sì, un paragrafo no. È uguale. Non cambia
niente. Prolisso allo sfinimento e poco interessante.” Evidentemente qualcuno
credeva di leggere un thriller e, guarda caso, le cose non gli tornavano!
Comunque, adesso vediamo se qualcuna di voi ha il coraggio di lamentarsi dei
propri recensori!
Quanto a me, quando uscì Il nome della rosa, mi pare che neppure
me ne accorsi. In verità mio suocero, che era un lettore forte molto curioso,
me ne parlò, ma per dire, mi pare, che non l’avrebbe comprato proprio perché
tutti ne parlavano. Per giunta il titolo, che ovviamente non avevo capito, non
attirò la mia attenzione se non in senso negativo: probabilmente nel mio
inconscio lo associavo al famigerato elogio della rosa di Marino. E può essere
che in quel momento fossi sviata da altre cose, dal momento che aspettavo il
mio primo figlio.
Ci ripensai solo qualche anno dopo,
quando frequentai un corso di aggiornamento sul Medioevo: ci fu una conferenza,
umoristica a ripensarci, sulla cucina dell’epoca, esemplificata solo con certe
particolari scene del romanzo, connesse in qualche modo con il cibo. Scoprii
così che si trattava di un giallo di genere concentrazionario con numerosi
cadaveri, cosa che, forse sotto l’influenza di Agatha Christie, sollecitò la
mia curiosità . Ne parlai a scuola in sala dei professori e una collega di
filosofia mi prestò il libro.
Non credo di riuscire a esprimere appieno
l’impressione che mi fece: una delle più profonde della mia vita di lettrice adulta.
Lo lessi al ritmo di un centinaio di pagine al giorno e, dato che avevo il
lavoro a scuola, la preparazione delle lezioni (niente compiti corretti in quel
periodo), più un marito ed un figlio piccolo a cui badare, si trattò proprio di
un tour de force. Ma, se non avessi avuto tutti quei doveri, penso che l’avrei
letto ininterrottamente dall’inizio alla fine, senza neanche una pausa per
mangiare, bere e dormire.
La mia prima valutazione fu che si
trattasse di un divertissement colto, di un gioco molto avvincente. Solo
qualche tempo dopo, quando uscirono le Postille,
capii che un intellettuale come Eco non si divertiva come noi persone comuni.
Ed ecco le prime cento pagine volutamente lente, per scremare i lettori
(facendo scappare quelli di cui sopra) e ritagliarsi il pubblico adatto, ed
ecco decine e decine di pagine di discussioni religiose e filosofiche, e
innanzitutto ecco la prefazione Naturalmente
un manoscritto, dove Eco borgesianamente fa riferimento a Manzoni,
raccontando di aver letto il libro dell’Abate Vallet, presto da lui perduto,
che riportava l’opera autobiografica dello stesso Adso da Melk, con la
narrazione dei terribili eventi avvenuti nel 1327 in un’abbazia del Nord
Italia.
Capii subito che in qualche modo lo
scrittore voleva riallacciarsi a Sherlock Holmes: ne era
spia linguistica il nome del protagonista Guglielmo da Baskerville, che per un
verso richiamava il Mastino di Conan
Doyle, ma per un altro faceva pensare (sia pure non alla sottoscritta) a
Guglielmo di Ockham, autore allora quasi del tutto sconosciuto ad una persona
di media cultura come me. E ciò perché Eco individuava proprio in quel filosofo
l’inizio del razionalismo moderno, che col tempo avrebbe portato al positivismo
e quindi a Sherlock Holmes. Episodio di riferimento quello in cui Guglielmo
individua l’oggetto della ricerca dei monaci incontrati per strada: il cavallo
Brunello. Sì, quello che il film successivo avrebbe beceramente sostituito con
un gabinetto.
Sfondo del romanzo è la “guerra civile”
fra spirituali e conventuali in corso nell’ordine francescano. Ma Eco affronta
in modo più o meno approfondito diverse tematiche importanti, al punto che è
impossibile menzionarle e soprattutto approfondirle tutte. Centrale è il
ripudio di ogni fanatismo e la tematica del riso: il male non è la mancanza di
fede, o la lussuria, o qualcuno degli altri peccati capitali. È invece
l’intolleranza e la demonizzazione dello spirito critico.
Indimenticabile la scena in cui assassino
ed investigatore si confrontano: “Il diavolo non è il principe della materia,
il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che
non viene mai presa dal dubbio.”
Un romanzo volutamente anomalo Il nome della rosa: per un verso
riprende tutte le caratteristiche del giallo all’inglese, ma si conclude con il
fallimento dell’investigatore, che scopre sì l’assassino, ma, diciamo, per
sbaglio, seguendo una pista del tutto errata e soprattutto senza riuscire a
difendere quello che gli sta più a cuore. È tecnicamente un romanzo storico
manzoniano con la grande ambizione di riassumere i tratti dell’intera cultura
occidentale, eppure è immerso profondamente nell’epoca degli anni di piombo,
dove i benedettini rappresentano i democristiani, i francescani i comunisti e i
fraticelli… i fraticelli sono i brigatisti rossi.
All’epoca non capii perché Eco
raccontasse due volte, per giunta in modo molto diverso, la morte di fra
Dolcino. Ora lo so. La morte eroica è quella della mitizzazione e della
leggenda, l’altra è la morte reale. E stranamente Dolcino è davvero un eroe
nella seconda, in cui urla per il dolore. Come è un eroe Sordi nel finale della
Grande guerra, quando protesta di non
sapere niente e strilla che, se sapesse, parlerebbe, perché è un vigliacco. Ma
intanto non parla. E non parlerà fino alla fine.
Grazie Matesi.Oggi ho seguito il funerale laico di Eco e, oltre alle parole del nipote, destinatario della famosa lettera sulla memoria, mi hanno colpito quelle di Moni Ovadia, imperniate sull'importanza dell'ironia, che lui ed Eco condividevano raccontandosi "storielle", come quella che Ovadia ha riportato a conclusione delle testimonianze. Il tuo commento mi sembra una chiosa perfetta.
RispondiEliminaRiflessioni molto profonde, Matesi. Ma, del resto, si parla di Eco.
RispondiEliminaIo ricordo che quando lo lessi, rimasi per ore affascinata dalla descrizione della colonna finemente cesellata di un'abbazia. Quello che mi dispiaceva era che a volte, nella foga di descrivere il periodo storico e l'ambiente che circondava la storia, perdevo un po' della suspence provata. Nonostante questo, sicuramente un bel romanzo da cui è stato tratto un film degno del suo "ispiratore" letterario.
RispondiEliminaCommento bellissimo e molto interessante, grazie Matesi! Anche a me è piaciuto in modo particolare l'intervento di Moni Ovadia, arguto e autoironico.
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